Ci sono boss che fanno più paura da morti che da vivi. Per tutto quello che si è rimestato intorno a loro, promesse, accordi, segreti che poi si sono portati nella tomba. E ci sono fatti di alta mafia che è meglio seppellire, dimenticare per sempre. Gli eroi caduti nel 1992 si possono e si devono celebrare una volta l'anno, in tutti gli altri giorni è sconveniente tirare fuori storie su mandanti occulti, uomini di stato invischiati in faccende sporche, avventurarsi in collegamenti che trasportano oltre confini che dai più vengono considerati inviolabili.
Faccio queste considerazioni seguendo un filo che parte da un clamoroso caso di cronaca e s'intreccia a un episodio apparentemente più marginale, dalle indagini a carico del generale Mario Mori per le stragi a un piccolo avvenimento culturale che ha attirato la mia attenzione. Sembrano vicende lontane fra loro, ma in comune hanno più di qualcosa: in comune per esempio hanno in sé la tendenza ad anestetizzare la realtà, la volontà di non affrontare sino in fondo certe questioni, di accontentarsi di un sapere molto galleggiante.
Verità e giustizia una volta l’anno
Cominciamo da Mori, ex direttore del servizi segreti civili al tempo del primo governo Berlusconi, capo dei reparti speciali dei carabinieri e tanto altro ancora. Entrato e uscito (assolto) dalle investigazioni su trattative stato-mafia e coperture a boss di Cosa Nostra, oggi si ritrova un'altra volta nel gorgo giudiziario «per non avere impedito eventi stragisti», le bombe del 1993. Ora è molto comprensibile la sua incazzatura per quest'altra accusa che gli piove addosso a ottantacinque anni, meno comprensibili le reazioni che sono seguite.
Tutti a chiedere «verità e giustizia» sui massacri a ogni ricorrenza ma appena la magistratura apre un fascicolo che insegue una traccia, ecco che scoppia il putiferio. Sconcertato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, rabbioso il ministro della Difesa Guido Crosetto, sempre più scomposta Rita Dalla Chiesa, la figlia del generale prefetto ucciso giù a Palermo una quarantina di anni fa. E irritualmente, è intervenuta perfino l'Arma manifestando la sua vicinanza a Mori.
Le stragi bisogna ricordarle durante le commemorazioni e solo lì. Sennò è macchina del fango, fantamafia. Il dibattito è chiuso, fine, non se ne deve parlare più.
Veniamo ai boss che fanno più paura da morti che da vivi. Mi ha molto colpito il programma di una bellissima manifestazione che si tiene ogni inizio estate a Palermo, Una Marina di Libri. Programma ricco con protagonista, fra gli altri, un Matteo Messina Denaro sempre invisibile, come invisibili sono diventati i libri scritti su di lui e sulla fine della sua latitanza. Anche la cultura risente di questo clima appiccicoso che ha invaso l'Italia della mafia e dell'antimafia.
I titoli scomparsi
Spariscono i libri e spariscono i titoli dei libri del procuratore capo della repubblica di Palermo Maurizio De Lucia e di Giacomo Di Girolamo e di Nello Trocchia, il primo autore de La Cattura e i secondi di Una vita tranquilla, due versioni contrastanti sull'arresto del boss di Castelvetrano che comunque avrebbero potuto confrontarsi – perché no?, anche aspramente – in un luogo di cultura. E invece tutto si è trasformato in una melassa, due incontri con lo stesso titolo evasivo (Il dovere di informare: raccontare l'antimafia) a cura dell'ordine dei giornalisti (colleghi, informare senza nomi e cognomi e indirizzi?) con i libri che sono stati praticamente occultati.
Tutto vago, tutto generico per tenere insieme tutto e tutti. Dispiace che in questo gioco di specchi sia scivolata Zolfo, una casa editrice (di cui sono socio e socio è pure il direttore artistico di Una Marina di Libri Gaetano Savatteri e pure uno degli autori, Di Girolamo) che della sua diversità ha sempre fatto segno distintivo. Dispiace che sia rotolata in mezzo all'ovvio che non fa male, a un conformismo dilagante dove si cancellano anche i titoli e le domande risultano irritanti.
A proposito di domande, un paio di mesi fa avevo previsto un breve soggiorno in Sicilia per presentare il libro di una magistrata molto nota. All'incontro era stato invitato anche un esimio professore, che da anni va scrivendo e commentando di mafia e di antimafia su più di un giornale. L'ho chiamato per chiedergli come avrebbe gradito intervenire alla presentazione del libro. La candida risposta dell'esimio professore: «Sia chiaro: io non voglio fatte domande». Naturalmente non sono più sceso a Palermo. Ma perché ci siamo ridotti così?
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