Se i rapporti di forza tra i due partiti non vengono radicalmente alterati dalle prossime elezioni, e rimane solo un leggero scarto, nessuno dei due leader può mettersi alla testa dello schieramento
Il pendolo tra collaborazione e competizione nel rapporto tra Pd e M5s è destinato a oscillare per lungo tempo. Fino alle elezioni europee, dato che si voterà con un sistema proporzionale, e non ha quindi molto senso presentarsi in coalizione con altri, è probabile che prevalga la competizione. Le punture di spillo – les petites phrases, nel gergo politico francese – provengono soprattutto da Giuseppe Conte, mentre Elly Schlein manifesta una capacità di assorbimento e una pazienza forse degne di miglior causa. Tuttavia non c’è nulla di strano: le alleanze non sono mai intese cordiali senza spine. Nel mitizzato Ulivo si svolgeva una continua, sorda lotta intestina tra prodiani, ex democristiani ed ex comunisti. E oggi, nella coalizione di governo, Matteo Salvini sta incominciando a elaborare una strategia per rimediare ai propri, grossolani, errori e riprendere, se non la leadership dello schieramento, quanto meno un posto a tavola più dignitoso. Ma esiste un terreno comune alle due forze di opposizione? Dipende dalla angolatura con cui le guardiamo. Se le mettiamo sul piano della rappresentanza sociale vi è, allo stato attuale, una proficua complementarietà. Il M5s attrae voti tra le classi sottoprivilegiate, concentrate nelle periferie urbane e, massicciamente, al sud. Il Pd, oltre a una residua componente operaia, è votato da ceti medi e medio-alti urbani con alto livello di istruzione; ed entrambi hanno successo tra i giovani, poco scolarizzati il M5s, altamente scolarizzati il Pd.
I territori di caccia economico-sociali sono quindi ben segmentati. Anche se il Pd si muove con una rinnovata convinzione a recuperare quelle componenti popolari che la segreteria Renzi ha fatto allontanare in gran numero, non riesce a far dimenticare il peccato originale dell’opposizione all’introduzione del reddito di cittadinanza. Invece, il messaggio simil-peronista dei pentastellati mantiene intatta la sua presa sui ceti disagiati. E proprio lo smantellamento di quel provvedimento da parte del governo Meloni garantisce una opposizione ferma da parte di Conte. Anche se si è assistito a qualche cenno di intesa e scambio di favori tra M5s e governo, come sulla Rai, i pentastellati si considerano alternativi a Meloni. Questo non significa che siano in simbiosi con il Pd. Le rispettive coordinate ideologiche divergono. La vaghezza, se non l’inaffidabilità, che si imputa ai pentastellati dipende dal loro patchwork valoriale che, nel tempo, ha accomunato posizioni libertarie – “free internet”, reclamava Grillo agli esordi – con invettive anti establishment e antipolitiche (da cui la riduzione dei componenti delle camere), pulsioni securitarie e manettare con l’introduzione di un welfare universalistico, sovranismo con europeismo.
A questo caleidoscopio alquanto confuso il Pd oppone la sua tradizionale linea di partito responsabile e «naturalmente di governo», appena ravvivato dalla spinta movimentista e giovanile della sua segreteria. Un partito serio, affidabile, un po’ liberal, un po’ labour e un po’ woke.
Questa complementarietà ideologico-valoriale si salda con la diversa rappresentanza sociale, e, in linea di principio, dovrebbe prospettare un futuro roseo. Salvo un piccolo particolare: la leadership della futura, eventuale, alleanza. Se i rapporti di forza tra i due partiti non vengono radicalmente alterati dalle prossime elezioni, e rimane solo un leggero scarto, nessuno dei due leader può mettersi alla testa dello schieramento. Ancora una volta, si dovrà ricorrere a un papa straniero. Forse è già tempo di pensarci.
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