- Il finanziamento di un’autostrada da parte del Ministero della transizione ecologica è stato giudicato un controsenso
- Si tratta di una valutazione che non tiene conto del fatto che il trasporto stradale produce sì maggiori emissioni di gas serra rispetto agli altri modi di trasporto ma, al contempo, genera per via fiscale risorse che lo rendono sostenibile grazie alla possibilità, oggi solo teorica, di finanziare interventi di riduzione della CO2 in altri settori per un multiplo di quelle prodotte
- La scelta del Ministero dovrebbe piuttosto essere criticata perché l’impiego di risorse pubbliche è stato deciso in assenza di una valutazione pubblica dei benefici dell’opera e in presenza della abituale crescita dei costi del progetto.
L’iniziativa del ministero della Transizione ecologica (Mite) di finanziare il completamento della Pedemontana lombarda è stata fatta oggetto negli scorsi giorni di forti critiche. A prima vista, la reazione a caldo è del tutto comprensibile. Come è possibile che proprio il dicastero che deve guidare la transizione ecologica finanzi un’autostrada? Non è l’auto, insieme con l’aereo, il modo di trasporto che comporta le più elevate emissioni e, dunque, il meno sostenibile? Non dovrebbero le risorse pubbliche essere utilizzate per investimenti a favore dei trasporti collettivi e della mobilità dolce? Ma quella che appare come una risposta scontata in realtà tale non è, per due ragioni.
La prima è che la domanda di trasporto soddisfatta dall’auto e dall’aereo può essere modificata solo in misura molto limitata dal livello di investimenti per i modi alternativi. Consideriamo, ad esempio, la bicicletta: in Olanda, il paese più ciclabile d’Europa, la distanza percorsa sulle due ruote equivale all’8 per cento della mobilità complessiva; in termini assoluti si tratta di circa mille chilometri all’anno per abitante.
Di questi una parte sono “sottratti” all’automobile e un’altra ai trasporti collettivi locali: autobus, tram e metropolitane soddisfano nei Paesi Bassi solo il 3 per cento della domanda. In prima approssimazione possiamo dire che il grande sviluppo che la bicicletta ha conosciuto negli ultimi decenni ha ridotto la distanza percorsa in auto dall’olandese medio di circa cinquecento chilometri all’anno.
Considerato che in Italia ogni abitante percorre in media circa dodicimila chilometri, se la bici diventasse popolare come nel paese dei tulipani le emissioni si ridurrebbero di pochi punti percentuali. Analoga considerazione può essere svolta con riferimento a metropolitane e tram: se nel nostro paese gli utenti raddoppiassero, il che implicherebbe triplicare o quadruplicare le attuali reti, la mobilità in auto si ridurrebbe di meno dell’un per cento.
La perdita delle accise
Vi è poi un secondo elemento da considerare. Quando si confrontano i diversi modi di trasporto abitualmente si considera solo l’impatto diretto delle politiche adottate. Quando un automobilista passa al trasporto collettivo riduce il suo impatto emissivo a circa un quarto e se sceglie la bici il beneficio è ancora maggiore.
Ma questo è solo uno degli effetti, quello immediatamente percepibile, della scelta. L’altro è rappresentato dalla perdita delle accise (e dell’Iva applicata sulle stesse) incamerate dallo stato. Per ogni mille litri di benzina in meno consumati la collettività si priva di 900 euro.
Con questi soldi lo stato potrebbe finanziare interventi per ridurre le emissioni di CO2 in altri settori per un ammontare che è oggi sette o otto volte superiore a quello generato dalla combustione del carburante. Si dirà: ma oggi quelle risorse non sono utilizzate a questo fine. È effettivamente così. Ora, sono possibili due casi: o la destinazione attuale delle accise che confluiscono con tutte le altre entrate fiscali nel bilancio dello stato comporta vantaggi superiori a quelli che si avrebbero impiegandole per la riduzione della CO2 e allora non vi è ragione per modificare l’attuale stato di cose oppure è verificato il caso opposto e allora si dovrebbe coerentemente decidere di riallocarle. Si potrebbe anche ipotizzare di lasciare agli automobilisti quando fanno il pieno di carburante la scelta se finanziare con le loro risorse una parte delle spese per la scuola, la sanità o i trasporti collettivi oppure se impiegarle per la tutela del clima.
Quanto detto ci fa comprendere come la sostenibilità di un modo di trasporto non può essere giudicata solo dal lato dell’impatto ma anche alla luce del fatto che esso generi o meno risorse sufficienti ad azzerarlo. Dovremmo cioè guadare non alle emissioni lorde ma a quelle nette: una tonnellata aggiunta e otto evitate sono per il pianeta preferibili a una sola tonnellata di CO2 in meno.
Non è dunque corretto appellarsi alla sostenibilità per contestare la scelta del Mite. La ragione per cui essa deve essere giudicata negativamente è che, come da pessima prassi consolidata nel nostro paese, le risorse dei contribuenti vengono destinate a questo investimento in assenza di un’analisi resa pubblica dei costi e benefici, della comparazione del progetto esistente con altri e, anche qui ripercorrendo il solito cliché, in presenza di un forte incremento dei costi rispetto a quanto previsto a preventivo con conseguente fuga degli investitori privati.
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