L’idea di un patto sociale riappare periodicamente nel dibattito politico, ma che cos’è un patto sociale e perché se ne parla tanto senza che poi si concretizzi?
Per rispondere è utile guardare all’esperienza dei paesi dell’Europa centro-settentrionale, dove da tempo le scelte politiche più importanti in campo economico e sociale sono prese dai governi insieme a grandi organizzazioni degli interessi delle imprese e del mondo del lavoro.
La concertazione riguardava – fino agli anni Settanta – la distribuzione del reddito. Sindacati forti, uniti e ben organizzati accettavano di non far crescere i salari più della produttività e di tenere bassa la conflittualità in cambio di politiche di sostegno dell’occupazione e di un welfare esteso che integrava le remunerazioni dei lavoratori con servizi fondamentali, come l’istruzione, la sanità, le pensioni offerte o garantite dai governi.
Le imprese, a loro volta, accettavano la tassazione più elevata, necessaria a finanziare la spesa pubblica per il welfare, pagavano alti salari e rinunciavano a servirsi del mercato per regolare i rapporti di lavoro e le retribuzioni. In cambio ottenevano bassa conflittualità in termini di scioperi e una domanda sostenuta dall’impegno pubblico.
Nuovi equilibri
Negli ultimi decenni, con il mutare dello scenario economico e la crescita della globalizzazione, lo scambio oggetto dei patti sociali si è modificato, coinvolgendo sempre più i processi di innovazione. Le imprese, a differenza di quanto accadeva nel contesto del capitalismo anglosassone, segnato dalla svolta neoliberista, hanno continuato a accettare un ruolo esteso delle relazioni industriali. Esse scambiano ora alti salari, maggiore pressione fiscale, mantenimento dell’occupazione e bassa conflittualità con un impegno più incisivo e coinvolgente dei sindacati nella governance delle imprese a sostegno della crescita della produttività.
I sindacati hanno anche accettato di garantire flessibilità e mobilità del lavoro in relazione alle nuove sfide poste dalla concorrenza internazionale.
I governi si sono impegnati in una ricalibratura del welfare volta a offrire nuova protezione a coloro che sperimentano rapporti di lavoro e familiari più discontinui. Allo stesso tempo, in collaborazione con le imprese, hanno puntato a far crescere la formazione e la riqualificazione del lavoro, e quindi a potenziare il capitale umano come bene collettivo per l’innovazione.
Il risultato di questa ultima versione dei patti è uno sviluppo inclusivo: i paesi coinvolti riescono a tenere meglio insieme crescita e contrasto più efficace delle disuguaglianze. Di un buon patto sociale ci sarebbe particolare bisogno in Italia. Lo ha ben spiegato il presidente Draghi all’assemblea di Confindustria. L’Italia potrebbe misurarsi meglio con le sfide che vengono dal contesto istituzionale e dall’ambiente esterno se riuscisse a esprimere una maggiore coesione e cooperazione interna.
Come fare allora a realizzare un patto sociale efficace? Balza anzitutto agli occhi una consapevolezza non adeguata di che cosa è un patto. Prevale tra i principali attori l’idea del patto come un avvicinamento di fatto degli altri alle proprie posizioni. A ciò si aggiunge la convinzione di ciascun attore che per raggiungere il patto il governo deve sposare e sostenere gli orientamenti di tale attore.
Compromesso
In realtà, i patti sono invece un compromesso nel quale ognuno dei principali soggetti coinvolti deve mettersi in gioco, deve rinunciare a qualcosa in cambio di un risultato complessivo che va a vantaggio di tutti.
Un risultato che non corrisponde alle prime preferenze di ciascun attore ma che comunque, pur essendo un second best, è meglio dei risultati negativi per tutti che discendono dal mancato accordo.
Invece i nostri protagonisti, anche quando sostengono le ragioni del patto, propongono contenuti che sono solo le loro prime preferenze.
Per esempio, le imprese sostengono la deregolazione del mercato del lavoro, sulla scia del Jobs Act, mentre i sindacati rispondono sottolineando la necessità di tutelare la dignità del lavoro con misure regolative tradizionali.
Ma non è così che funzionano i patti sociali.
Così come non aiuta l’idea del governo come mero sostenitore di un attore in campo invece che soggetto terzo che deve potere usare le sue risorse per convincere gli altri protagonisti a fidarsi reciprocamente, e se necessario anche per forzare gli altri attori al compromesso. È evidente che questo ruolo del governo non corrisponde al modo in cui è stato considerato il presidente del Consiglio dall’assemblea di Confindustria: uno dei nostri.
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