Non sono le Rsa a dover essere riformate, è l’intero sistema sociosanitario che va rivisto e corretto dalle fondamenta. Mario Giro e Cristiano Gori hanno già esposto i propri punti di vista sulla questione Covid-19 in relazione alle strutture per anziani. Giro promuovendo la loro chiusura come unica soluzione possibile, Gori affermando che vanno migliorate e riqualificate anziché smantellate.

Entrambe le visioni hanno punti di forza. Quello che forse manca è una considerazione sul perché siamo arrivati al punto in cui tutte le parti in causa (anziani, operatori, famiglie) troppo spesso versano in una condizione di disagio. L’Italia ha un problema con la gestione della terza e della quarta età che parte dalla sua stessa accettazione.

Stante che gli anziani rappresentano quasi un terzo della popolazione del paese, il problema è tanto reale quanto paradossale. Solitudine, smembramento delle relazioni sociali, erosione delle risorse economiche a fronte di rette troppo alte, gestione poco trasparente, perenne carenza di un organico sovraccarico e malpagato sono solo alcune delle criticità legate all’assistenza sociosanitaria in Rsa e case di riposo.

Superare il sistema

Il superamento di questo sistema è un tema urgente e un processo auspicabile, a patto di non incorrere in errori già sperimentati in campo assistenziale.

Oggi sappiamo che la chiusura dei manicomi seguita alla legge Basaglia è stata un passaggio essenziale non solo nell’ambito psichiatrico, ma anche in quello dei diritti umani. La faccia oscura di questa medaglia è che una riforma monca ha lasciato dietro di sé lacune di cui, ancora oggi, i diretti interessati pagano per primi le conseguenze. Anche in tema di vecchiaia, un cambiamento radicale non può dunque essere compiuto senza ragionare di come in Italia si intende il welfare dedicato alla famiglia e alle fasce più deboli della popolazione.

L’esito sarebbe altrimenti un tana libera tutti, in cui il peso dell’assistenza verrebbe, ancor più di quanto già avviene, spostato su congiunti eletti a caregiver. Per ricucire questo strappo doloroso, che vuole gli anziani pesanti e spostabili come pacchi, bisogna necessariamente prendersi cura anche della loro rete sociale, sia essa rappresentata da una famiglia nucleare, da un parente rimasto solo, da un’amicizia.

Non è possibile parlare di sistemi alternativi alle strutture, come l’assistenza domiciliare e diffusa, senza parlare di soglia di povertà, divario economico e ruolo dello stato nel supporto continuativo ai non autosufficienti. Un sistema alternativo deve presupporre che un’assistenza equa è un’assistenza calibrata anche per i casi più complessi (ma non per questo meno diffusi): la vecchiaia che si accompagna alla demenza, la demenza che si aggiunge a una malattia psichiatrica, la vecchiaia in assenza di vecchiaia – come nel caso delle demenze precoci –, la solitudine di chi è completamente privo di mezzi, di famigliari o di entrambi.

Le strutture che si sono dimostrate all’altezza di questo compito sono a oggi delle sparute eccellenze. Per superare lo status quo sarà essenziale non riprodurre le medesime modalità ritagliandole e incollandole in contesti diversi.

L’approccio alla vita

Allo stesso modo non è né concepibile né auspicabile una riforma dell’assistenza agli anziani che non consideri in modo organico, integrato, umano e profondamente laico l’approccio alla vita dal suo inizio alla sua fine. Parlare di terza e quarta età vuol dire anche parlare di malattia, libertà di scelta dei propri tutori e referenti legali, libertà di scelta nel campo delle terapie disponibili affinché non siano subite, testamento biologico.

È infine inevitabile considerare che l’istituzionalizzazione dell’accudimento ha ormai preso la forma dell’industria intensiva, con il profitto come obiettivo primario. In questo settore la relazione tra pubblico e privato è viziata da uno squilibrio fuori controllo. Il rapporto Oasi 2019 a cura di Cergas – Bocconi evidenzia come «la rete di welfare pubblico sociosanitaria e sociale, nonostante alcuni aumenti di attività degli anni più recenti è ancora troppo debole e poco estesa per riuscire a far fronte alla popolazione in condizioni di non autosufficienza».

Mentre il sindacato dei pensionati Spi Cgil con il suo Osservatorio sulle residenze per gli anziani, a cura dell’Ires Morosini, già nel 2017 sottolineava come solo il 14 per cento delle strutture avesse una gestione pubblica a fronte di un 70 per cento in mano a soggetti privati e la restante fetta divisa tra onlus, cooperative sociali ed enti religiosi. Il quadro è quello di un privato forte rappresentato da associazioni di categoria forti, troppo più forti sia delle famiglie degli anziani che dei dipendenti incaricati di accudirli.

Perché si è permesso che una parte così delicata del settore sociosanitario venisse appaltata a grandi privati e multinazionali quotate in Borsa? In un momento di grave emergenza sanitaria e polverizzazione delle risorse non abbiamo ricette ideali né via d’uscita facili. Possiamo però continuare a domandarci e domandare: dov’è il servizio sanitario nazionale quando si tratta dei nostri ultimi anni di vita?

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