- Conte aveva espresso la volontà di rendere accessibili alla comunità scientifica gli indicatori e i dati alla base del monitoraggio regionale dell’epidemia Covid-19; per questo ha chiesto al ministero della Salute e al direttore dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) di condividere queste informazioni.
- Nel frattempo è arrivata la notizia che l’Istituto Superiore di Sanità ha siglato un accordo annuale con l’Accademia dei Lincei per mettere a disposizione dei suoi membri i dati raccolti dall’Iss.
- I dati (non è dato sapere quali) non saranno a disposizione dell’intera comunità scientifica, ma solo di un ristretto gruppo di accademici, alcuni dei quali non attivi nella ricerca da anni.
Una recente ricerca condotta da un team di ricercatori della Stanford University, e pubblicata su Nature, ha tracciato i movimenti di quasi cento milioni di persone che abitano nella maggiori città statunitensi. Grazie alla capacità di identificare le singole visite a ristoranti, palestre, supermercati e altre destinazioni popolari e all’utilizzo di un modello epidemiologico, il team è stato in grado di identificare i luoghi di maggiore contagio e di misurare e visualizzare l’effetto di diverse restrizioni su mobilità e contagi.
Ne emerge è un quadro ricco di informazioni, utili a disegnare politiche pubbliche mirate e potenzialmente in grado di limitare i contagi minimizzando i costi economici. Per esempio, i ristoranti risultano essere i luoghi più rischiosi, fino a quattro volte più di bar e palestre. Inoltre, i contagi sono maggiori nelle aree più svantaggiate dal punto di vista socio-economico, dove i negozi sono in genere più affollati, dato che molti individui hanno lavori che difficilmente possono essere svolti in remoto.
I dati utilizzati nella ricerca sono raccolti, aggregati e resi anonimi da SafeGraph, una impresa californiana che li rende disponibili a ricercatori, università e enti pubblici per facilitare la ricerca sul Covid-19.
Al di là degli specifici risultati di questo studio, il modo in cui è stato condotto mostra alcuni degli aspetti più virtuosi che consentono alla comunità scientifica di avanzare le nostre conoscenze, cosa quanto mai cruciale nella fase storica che stiamo vivendo. In particolare, la condivisione di dati e informazioni all’interno di una comunità il più ampia possibile consente di trarre vantaggio da maggiori competenze e capacità.
Purtroppo, poiché in Italia permangono ostacoli per il rapido raggiungimento di questo obiettivo, l’informazione sulla diffusione del Covid 19 è spesso limitata e pertanto di scarsa utilità—ne abbiamo scritto recentemente su queste pagine.
Promesse tradite
Nel corso dell’ultima conferenza stampa, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha espresso la volontà di rendere accessibili alla comunità scientifica gli indicatori e i dati alla base del monitoraggio regionale dell’epidemia Covid-19; per questo, ha continuato, ha chiesto al ministero della Salute e al direttore dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) di condividere queste informazioni. A distanza di una settimana, tuttavia, la comunità scientifica non ha quasi nulla con cui lavorare.
Sul sito del ministero della Salute sono disponibili solo gli indicatori previsti dal decreto del 30 Aprile per il monitoraggio regionale, oltre ad alcuni documenti che riportano anche informazioni sul numero dei casi giornalieri rilevati per provincia—un livello di aggregazione che rende impossibili analisi e raccomandazioni mirate a precise aree: questi dati sono di fatto inutili per condurre analisi che possano fornire una qualche indicazione per gli interventi di sanità pubblica.
Nel frattempo è arrivata la notizia che l’Istituto Superiore di Sanità ha siglato un accordo annuale con l’Accademia dei Lincei per mettere a disposizione dei suoi membri i dati raccolti dall’Iss. Il presidente dei Lincei, Giorgio Parisi, ha sottolineato che «serve un grande sforzo coordinato della comunità scientifica per arrivare a una maggiore comprensione” della diffusione del virus; a sua volta, il presidente dell’ISS Silvio Brusaferro ha dichiarato che di credere “fermamente nell'importanza di rendere disponibili i dati alla comunità scientifica».
Tuttavia, l’accordo non sembra rispecchiare queste parole, perché i dati (non è dato sapere quali) non saranno a disposizione dell’intera comunità scientifica, ma solo di un ristretto gruppo di accademici, alcuni dei quali non attivi nella ricerca da anni.
In un contesto come quello attuale, in cui c’è un disperato bisogno di dati ed evidenze, accordi di questo tipo non hanno alcuna ragione di esistere, se non quella di limitare la trasparenza e il controllo sulle decisioni pubbliche.
Forse il modello di collaborazione fra università e imprese cha ha reso possibile lo studio di Stanford non è facilmente replicabile in tempi rapidi, ma un approccio simile, su scala ridotta, potrebbe essere avviato con accordi con gli operatori di telefonia mobile.
Ricercatori ed eccellenze non mancano al nostro paese. Ma senza dati utili, le competenze a loro volta servono a poco. In questa fase, il ruolo del governo non è (solo) pubblicare qualche indicatore regionale, ma anche e soprattutto coordinare e incentivare gli operatori del settore privato a rendere disponibili i dati esistenti, nel rispetto della privacy.
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