Dopo aver privatizzato i profitti della ripresa del 2021, è arrivato il momento di socializzare le perdite: l’intero sistema economico italiano entra in campagna elettorale e chiede al governo in carica e soprattutto ai partiti che cercano voti di farsi carico dell’aumento del costo dell’energia.

L’ultimo allarme arriva dall’associazione delle sale Bingo (Ascob), “il 10-15 per cento” delle 196 sale in Italia potrebbe chiudere entro fine anno.

Ammesso che sia una cattiva notizia, è indicativa di una dipendenza strutturale di gran parte del tessuto economico dal sostegno pubblico in nome della reazione a uno shock esterno, prima il Covid, ora la crisi energetica.

Mentre con una mano i concessionari del Bingo si oppongono agli aumenti dei canoni di concessioni e cercano in ogni modo di evitare le gare, dall’altro lamentano che un business a cui si aggrappano con tanta tenacia sia in perdita e quindi bisognoso di interventi di sostegno, motivati da non si capisce quale utilità sociale.

Allarme latte?

Il gioco d’azzardo è solo uno dei mille settori che chiede aiuto, anzi lo pretende. L’ultimo allarme sui giornali è quello lanciato dai produttori di latte, in vista di aumenti del prezzo del prodotto finito sopra i 2 euro al litro che comunque non bastano a compensare i rincari nella filiera. Le due aziende che chiedono interventi, Granarolo e Lactalis, non sono però certo al dissesto, anzi.

Granarolo ha chiuso il 2021 con un fatturato di 1,2 miliardi di euro e 19 milioni di utile netto. A fine 2021 il think tank Ambrosetti celebrava la crescita di Lactalis in Italia che neppure la pandemia aveva rallentato.

I distretti della ceramica che oggi si fermano, perché manca materia prima dall’Ucraina e il costo del gas rende la produzione di mattonelle anti-economica, è reduce da un biennio stellare: se "nel primo trimestre del 2021 la crescita era del 6 per cento rispetto al 2019, al 30 giugno il risultato cumulato in valore ha raggiunto il 12 per cento per poi confermarsi a un 15% di crescita a fine settembre", commentava Confindustria ceramica a fine 2021.

Secondo un’analisi Cerved, «nel 2021 la produzione venduta nel settore delle piastrelle ceramiche ha superato i 6 miliardi di euro, in crescita del +19,4 per cento, dopo un calo del -3,9 per cento nel 2020. Le esportazioni, che rappresentano oltre il 75 per cento circa delle vendite, hanno mostrato un incremento del +19,2 per cento».

I settori che oggi chiedono protezione al governo e interventi per decine di miliardi, insomma, vengono da un biennio di crescita a doppia cifra, spinti dagli aiuti a fondo perduto anti-Covid, dai tassi bassi della Banca centrale europeo, e dalla ripresa internazionale sostenuta a debito in tutti i paesi occidentali.

Paghiamo noi 

La socializzazione dei costi della reazione allo shock pandemio, quindi, ha prodotto enormi opportunità di profitti privati. Poi arriva un altro shock – il gas – e queste aziende chiedono che di nuovo lo Stato si faccia carico della congiuntura sfavorevole, in modo che possano  uscire indenni dalla crisi e tornare a macinare profitti appena il peggio sarà alle spalle.

La cosa sorprendente è che il governo – in questo caso il governo Draghi – a queste richieste risponde sempre in modo favorevole. Secondo i calcoli del think tank Bruegel, l’Italia è il terzo paese europeo per aiuti contro la crisi energetica, dopO Grecia e Lituania: 49,5 miliardi di euro, quasi il 3 per cento del Pil.

L’ultimo provvedimento, il decreto Aiuti bis, segue sempre lo stesso schema: 3,4 miliardi a fondo perduto, senza chiedere niente in cambio, sotto forma di credito di imposta tra il 20 e il 25 per cento per le imprese energivore e gasivore, ma anche il 15 per cento a favore di quelle non energivore e non gasivore. 

Questo genere di aiuti si giustifica di solito perché è conveniente per tutti, anche se costoso, evitare che uno shock temporaneo (l’aumento della bolletta energetica) si trasformi in un danno permanente (chiusura dell’azienda con perdita di posti di lavoro).

Ma la combinazione di crisi pandemica e crisi energetica rende difficile applicare questo schema, perché la crisi è diventata permanente, e il tentativo di rendere permanenti anche i sussidi genera un equilibrio difficile da gestire: alcune imprese si ribellano anche al divieto di scaricare sui clienti i rincari, con questi prezzi è più vantaggioso pagare le multe che rinunciare ai ricavi.

In campagna elettorale i partiti, in particolare la Lega di Matteo Salvini sembrano ben felici di proseguire questo approccio nella versione più estrema, cioè con nuovo deficit (la richiesta leghista è di 30 miliardi di euro) per finanziare aiuti a fondo perduto.

L’alternativa

Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni, che si deve accreditare come forza di governo responsabile, sembra sulla stessa linea del governo Draghi: bene gli aiuti ma senza nuovo debito. Ma nessuno, neppure a sinistra, che si opponga alla logica di socializzare le perdite dopo aver privatizzato i profitti. Eppure basterebbe trasformare i regali a fondo perduto in prestiti a tasso zero che si restituiscono una volta passata la crisi temporanea.

Negli Stati Uniti i presidenti George W. Bush e Donald Trump hanno seguito un approccio simile dopo le crisi del 2008 e 2020: acquisto di titoli finanziari senza mercato (che poi si sono rivalutati) invece che regali alle banche, e prestiti alle imprese colpite dal Covid che diventavano a fondo perduto solo se non licenziavano.

In Italia invece prevale la logica del regalo a spese del contribuente. In fondo siamo il paese di “Sussidistan”, come da sintesi del presidente di Confindustria Carlo Bonomi che infatti è il primo a chiedere altri aiuti per pagare le bollette.  

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