- Draghi è l’alleato inevitabile per Biden. Ma anche Biden è il partner che Draghi deve coltivare per mancanza di alternative.
- Il premier conosce troppo bene le dinamiche europee per pensare di poter vincere battaglie impossibili, come quella sull’embargo al petrolio o al gas, meglio limitarsi a essere il più europeo degli atlantisti e il più atlantista degli europei.
- Però ha fatto la cosa che nel medio periodo per gli Stati Uniti è più importante: sganciare l’Italia dall’orbita russa, schierare il paese senza ambiguità con l’Occidente, sia in termini di scelte concrete che programmatiche.
La Germania è troppo impegnata a fare i conti con le sue connivenze passate con la Russia per esercitare una leadership nella crisi ucraina, la Francia è zavorrata dalle scadenze elettorali (prima le presidenziali, ora le legislative) e dall’ambizione del presidente Emmanuel Macron di essere il grande mediatore, l’interlocutore di Vladimir Putin con cui parla spesso. La Spagna non è pervenuta, la Gran Bretagna è fuori dall’Unione e impegnata a cercarsi un ruolo.
Tolta la Polonia e gli altri paesi dell’est che temono per il proprio destino, agli Stati Uniti di Joe Biden non restano molte alternative: Mario Draghi e l’Italia sono la cosa più simile a un partner affidabile in questa ormai lunga e logorante campagna europea, il conflitto sul territorio ucraino da cui dipende il destino dell’Ucraina come stato ma anche le traiettorie evolutive della globalizzazione.
Il minimalismo di Draghi
Le mosse di Draghi però non sono facili da decodificare in questo scenario. All’inizio della crisi, ha suggerito al segretario al Tesoro Janet Yellen di congelare le riserve della Banca centrale russa presso le altre banche centrali: 300 miliardi in valuta estera che non sono più sotto la disponibilità di Putin e che potrebbero, un domani, essere usate per la ricostruzione dell’Ucraina (se prevalesse l’approccio “Versailles”, nel senso di far pagare i danni della guerra all’aggressore, anche col rischio di innescare una spirale di povertà, rabbia e revanscismo come nella Germania del primo Dopoguerra).
Il premier italiano poi ha tenuto una linea coerente, ma minimalista: mai una iniziativa diplomatica autonoma, non è andato a Kiev e neppure a Mosca, ha combinato un pasticcio di comunicazione quando ha assicurato, dopo una telefonata, che Putin mai avrebbe imposto il pagamento del gas in rubli (e poi è successo), ha garantito le armi richieste (non sappiamo esattamente quali, è tutto secretato) all’esercito ucraino ma sul fronte europeo ha rinunciato a esercitare una vera leadership
Certo, è visto come una figura autorevole e di riferimento ma, come spiegato più volte in parlamento, la linea dell’Italia sulla guerra è quella dell’Ue: prima si trova il compromesso a Bruxelles, cui Draghi partecipa alla pari degli altri capi di governo, poi Roma si adegua. Le proposte che hanno seguito la direzione negoziale opposta, come l’idea di un prezzo unico di acquisto del gas imposto dall’Ue alla Russia, si sono arenate.
Sganciare l’Italia
Draghi non è mai stato un protagonista della politica internazionale, non se ne è proprio mai occupato se non dalla prospettiva della politica economica e finanziaria.
E allora è forse sotto questa lente che bisogna interpretare le sue scelte di fronte allo shock esogeno della crisi: dal primo giorno di guerra, Draghi sta provando a costruire soluzioni strutturali per risolvere il problema profondo che ha reso fragile l’Europa nel suo confronto con Putin. Cioè la dipendenza dal gas.
Prima ancora della Germania o di altri grandi paesi, l’Italia ha iniziato a cercare fornitori alternativi di gas per i prossimi decenni: Algeria, Qatar, Mozambico, Egitto, contratti (segreti, chissà a che prezzi) che renderanno più difficile il distacco dalle fonti fossili, con tanti saluti alla transizione ecologica, ma che bruscamente spostano l’Italia fuori dalla sfera di influenza russa. Inoltre, il ministero del Tesoro – all’interno del Documento di economia e finanza – ha presentato stime sul possibile distacco immediato dalle forniture russe già dalla primavera: danni considerevoli per l’economia italiana, ma sostenibili. Il solo fatto di metterlo in un testo ufficiale equivale a dire: il governo italiano è pronto a discuterne.
Tutti segnali che gli Stati Uniti hanno colto, visto che la diagnosi americana sugli ultimi anni è che molti problemi attuali dipendono dalla debolezza della reazione Ue dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014: sanzioni solo simboliche, mentre la dipendenza energetica aumentava.
Draghi, insomma, non ha combattuto battaglie che non poteva vincere in Europa vista la resistenza di Germania e altri (non risultano sue iniziative di moral suasion sul cancelliere Olaf Scholz, con il quale i contatti sono stati molto inferiori che ai tempi di Angela Merkel).
Ma ha fatto la cosa che nel medio periodo per gli Stati Uniti è più importante: sganciare l’Italia dall’orbita russa, schierare il paese senza ambiguità con l’Occidente, sia in termini di scelte concrete che programmatiche.
Una posizione che oggi pare ovvia, ma che non lo era ai tempi di Giuseppe Conte e neppure in fasi precedenti (basta guardare le scelte dei governi Renzi e Gentiloni, dopo la Crimea).
La nuova collocazione dell’Italia
Le conseguenze di sistema sono rilevanti, dalla prospettiva americana. Primo: alle elezioni del prossimo anno, una possibile vittoria di partiti storicamente filo-russi o anti-europei avrebbe conseguenze inferiori che nel contesto dell’abituale collocazione ambigua dell’Italia, in bilico tra Europa e Russia.
Giorgia Meloni, oppositrice sempre allineata con Draghi sulle questioni di fondo, ha già fatto professione di atlantismo (suo l’ordine del giorno per aumentare subito la spesa militare in base alle richieste Nato), la Lega di Matteo Salvini potrebbe fare ben poco dal governo per ricostruire i legami che Draghi sta recidendo.
Seconda conseguenza. A differenza della vulgata che vuole gli Stati Uniti interessati a un’Europa debole, Washington è interessata a che l’allargamento verso est continui.
Per ragioni valoriali e geopolitiche: nel pendolo storico e contingente tra isolazionismo e interventismo, idealismo e realismo, l’amministrazione Biden predica il disimpegno dalle forever war (Afghanistan, Iraq), ma continua a dividere il mondo tra democrazie e autocrazie. E l’espansione dei valori liberali nella sfera di influenza russa è dunque ben vista anche se, per paradosso, è affidata a paesi come la Polonia che, al loro interno, sfidano i principi dell’integrazione europea e della democrazia liberale.
«Negli anni Novanta e nei Duemila, molti policymaker americani sono stati favorevoli a sostenere l’allargamento perché lo consideravano un modo per ridurre le tensioni Ue-Usa», si legge in un dossier del Congresso americano sul tema.
La linea ufficiale degli Stati Uniti è che l’utilità dell’Ue è sottrarre paesi alla sfera di influenza di altre potenze giudicare più ostili, come Russia e Cina: meglio i Balcani nell’Ue, che infiltrati da disinformazione putiniana e investimenti cinesi. Washington vorrebbe perfino la Turchia nell’Ue. Anche perché più l’Ue si allarga, meno peso hanno Germania e Francia, uniche potenze problematiche per gli Stati Uniti in termini commerciali.
Ue e allargamento
Draghi ha perfettamente interpretato questo spirito, quando un po’ a sorpresa ha schierato l’Italia a favore dell’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea, magari in un contesto in cui le decisioni di politica estera si prendono a maggioranza e non più all’unanimità (come ha proposto nel discorso al parlamento europeo).
Macron non si è spinto a tanto, ha proposto soltanto una confederazione europea che preveda una specie di secondo livello per i paesi che non hanno i requisiti per la membership.
Draghi, quindi, è l’alleato inevitabile per Biden. Ma anche Biden è il partner che Draghi deve coltivare per mancanza di alternative: il premier conosce troppo bene le dinamiche europee per pensare di poter vincere battaglie impossibili, come quella sull’embargo al petrolio o al gas, meglio limitarsi a essere il più europeo degli atlantisti e il più atlantista degli europei.
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