- Vedendo scorrere negli schermi televisivi i risultati del primo turno delle elezioni in Francia non si può non pensare a quante volte abbiamo letto o sentito delle “virtù” del sistema elettorale francese.
- Ci è stato spiegato che questo sistema permetterebbe di migliorare la selezione della classe politica e soprattutto la governabilità.
- Ridurrebbe infatti la polarizzazione, ovvero la distanza ideologica e politica che alimenta le divisioni e crea conflittualità. A giudicare dai risultati di Le Pen, Zemmour e Mélenchon, queste aspettative sono nettamente contraddette.
Vedendo scorrere negli schermi televisivi i risultati del primo turno delle elezioni in Francia non si può non pensare a quante volte abbiamo letto o sentito delle “virtù” del sistema elettorale francese. Ci è stato spiegato che questo sistema permetterebbe di migliorare la selezione della classe politica e soprattutto la governabilità. Ridurrebbe infatti la polarizzazione, ovvero la distanza ideologica e politica che alimenta le divisioni e crea conflittualità.
A giudicare dai risultati di Le Pen, Zemmour e Mélenchon, queste aspettative sono nettamente contraddette.
I benefici del doppio turno alla francese sono, in breve, così spiegati. Anzitutto, il maggioritario in collegi uninominali in cui “chi vince prende tutto” limita, ovviamente, la possibilità di identificarsi con forze minori che non hanno possibilità di guadagnare la maggioranza dei voti di un collegio.
Tuttavia, questo vulnus democratico sarebbe attenuato rispetto al maggioritario a turno unico dalla possibilità di esprimere un voto più “libero” e poi uno più “utile” al secondo.
In realtà, però, il grado di "disproporzionalità”, cioè la differenza tra seggi e voti di ciascun partito è il più elevato in Francia con il 19,3, seguita a distanza dal Regno Unito con 15,8 e dagli Usa con 11,6. Insomma, il maggioritario tende a ‘forzare’ molto le preferenze dell’elettore a vantaggio delle formazioni maggiori.
Queste per vincere devono necessariamente conquistare il consenso degli elettori moderati di centro. Quindi le differenze nei programmi tra le principali forze politiche si attenuano.
La riduzione della polarizzazione e della conflittualità si possono però realizzare fino a quando gli elettori si sentono rappresentati.
Come è avvenuto nella fase del grande sviluppo post-bellico accompagnato da una riduzione delle disuguaglianze di classe. Ma che cosa succede quando globalizzazione e innovazione destabilizzano le condizioni di lavoro e di vita di gruppi sociali sempre più consistenti e dei loro territori?
A questo punto la connotazione centripeta e la spinta alla bassa distinzione programmatica delle principali forze politiche, alla quale contribuisce il maggioritario (anche a doppio turno), diventano un catalizzatore di astensionismo e di identificazione con forze politiche radicali.
Si pensi in particolare alle pesanti perdite da parte dei socialisti francesi del loro elettorato popolare tradizionale (ma il fenomeno è diffuso).
Agli inizi degli anni 2000, il 41 per cento dei lavoratori manuali votavano per il PS, alla fine degli anni 2010 il 7,6 per cento (il 28 per cento vota per il Front National della Le Pen). In Italia abbiamo problemi simili. Non li aggraviamo insistendo sulle presunte virtù di un sistema elettorale che non è adatto a mediare le tensioni degli anni in cui viviamo.
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