- Vi sono certamente alcuni punti di contatto tra quanto accaduto in Vietnam alla metà degli anni Settanta e ciò di cui tutti noi siamo stati testimoni da alcuni giorni a questa parte.
- Ma ci sono anche differenze: il governo afgano, così come le forze armate, si è sciolto come neve al sole dopo sole due settimane dall’inizio dell’offensiva talebana.
- In Vietnam, al contrario, i sudvietnamiti cercarono strenuamente di resistere alle offensive delle forze del nord anche dopo l’abbandono delle truppe americane nel 1973, almeno fino a quando non terminarono le munizioni e dovettero arrendersi ai vietcong.
«In nessun caso ci saranno persone evacuate dal tetto dell’ambasciata degli Stati Uniti. Non è assolutamente paragonabile». Quando, l’8 luglio scorso, il presidente americano Joe Biden – parlando del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan – pronunciò queste parole, il parallelo che, forse troppo frettolosamente, egli voleva fugare era quello con quanto successe a Saigon tra il 29 ed il 30 aprile 1975, quando le fotografie degli elicotteri accorsi per trarre in salvo i cittadini stipati proprio sul tetto dell’ambasciata americana, nella speranza di sfuggire ai nordvietnamiti che si preparavano a prendere la città, fecero il giro del mondo, testimoniando la disfatta statunitense.
Promesse tradite
All’alba della sua presidenza, Biden aveva dichiarato che non avrebbe mandato «un’altra generazione di americani in guerra in Afghanistan»: ciò significava che questo conflitto infinito – più lungo addirittura della stessa partecipazione americana in Vietnam e probabilmente altrettanto fallimentare per Washington – sarebbe terminato entro il 31 agosto di quest’anno col ritiro delle forze statunitensi.
Nel corso di una serie di apparizioni televisive, anche il segretario di stato americano, Anthony Blinken, ha seccamente rigettato qualunque analogia con ciò che accadde alla metà degli anni Settanta in Vietnam, sottolineando come gli Stati Uniti abbiano «fatto il loro dovere» in Afghanistan per più di due decenni e come un’ulteriore permanenza non sarebbe stato nell’interesse nazionale dell’America.
Ciononostante, domenica scorsa, mentre i talebani si apprestavano a fare il loro trionfale ingresso nella città di Kabul, i social media sono stati letteralmente invasi dalle foto degli elicotteri Chinook e Black Hawk che volteggiavano nei pressi dell’ambasciata americana al fine di trasportare i membri del personale verso un rifugio sicuro presso l’aeroporto internazionale.
L’analogia tra il Vietnam e l’Afghanistan è stata immediatamente ripresa da entrambi gli schieramenti politici: dai repubblicani, che, per attaccare il presidente, hanno parlato della “Saigon di Joe Biden”, agli stessi democratici, alcuni dei quali hanno trovato moltissime corrispondenze con la “palude” vietnamita; in aggiunta, molti veterani della guerra del Vietnam, guardando a ciò che è avvenuto a Kabul, hanno parlato addirittura di dejà vu.
Cosa è successo in Vietnam
La guerra del Vietnam ebbe inizio nel 1954 – quando il leggendario generale nordvietnamita Vo Nguyen Giap sconfisse le truppe coloniali francesi a Dien Bien Phu – e proseguì per i successivi ventuno anni, fino alla drammatica sconfitta impartita agli americani e ai sudvietnamiti. Il 29 aprile 1975, dopo aver circondarono Saigon, i vietcong presero a bersagliare la base aerea di Tan Son Nhut con una pioggia di razzi e colpi di artiglieria. L’attacco condusse all’evacuazione immediata – ordinata dall’ambasciatore Graham Martin – dei circa 5.000 americani che erano ancora al lavoro presso l’ambasciata statunitense e di alcuni cittadini vietnamiti considerati “a rischio”.
L’operazione – denominata Frequent Wind – non si rivelò semplice: dato che le vie d’accesso erano state bloccate e gli aerei non potevano atterrare a Saigon, l’unica possibilità era quella di creare un ponte con le navi stazionate al largo della costa utilizzando gli elicotteri per evacuare il personale. Dal 29 al 30 aprile, quindi, gli elicotteri americani atterrarono sul tetto dell’ambasciata americana – l’unico punto di evacuazione rimasto ancora integro – ad intervalli di dieci minuti, portando in salvo più di 7.000 persone in meno di 24 ore, mentre davanti all’ingresso dell’edificio circa 10.000 sudvietnamiti premevano nella speranza di essere condotti in salvo solo per essere respinti dai marines.
Poche ore dopo il completamento delle operazioni, le forze nordvietnamite del Fronte di Liberazione Nazionale catturarono Saigon – poi ribattezzata Ho Chi Minh City – e il Vietnam del Sud fu costretto ad arrendersi senza condizioni. I costi della guerra furono immensi per il paese asiatico: circa due milioni di civili e più di un milione di soldati – gran parte dei quali nordvietnamiti – persero la vita nel conflitto, senza parlare delle infrastrutture, che furono annientate dai fitti bombardamenti.
Dimenticare la sconfitta
La caduta di Saigon aprì la strada ad una riunificazione del Vietnam lungamente attesa, formalmente sancita nell’estate del 1976, senza alcun dibattito o discussione preliminare tra le parti; il processo di riconciliazione, tuttavia, avrebbe seguito un percorso molto più tortuoso, puntellato dagli sforzi dei nordvietnamiti di consolidare il controllo politico ai danni del sud, attraverso l’assoggettamento e la “rieducazione” dei potenziali oppositori e il chirurgico controllo delle fonti di informazione.
Dopo il loro ritiro dal paese nel 1975, gli Stati Uniti imposero un severo embargo commerciale ai danni del Vietnam, facendo pressioni sia sui loro alleati sia sulle organizzazioni internazionali perché negassero qualunque forma di assistenza al paese asiatico.
Il Vietnam, tuttavia, decise, nel 1986, di introdurre una serie di riforme economiche (chiamate doi moi, rinnovamento), sulla falsariga di quanto accaduto in Cina, che misero fuori gioco la pianificazione a livello centrale aprendo l’economia alle forze di mercato. Tale decisione fece crescere immensamente le esportazioni di alcuni prodotti – riso, tè, caffè, scarpe, tessile, computer – che proiettarono il paese verso una maggiore prosperità, tanto che all’inizio del millennio esso raggiunse punte di crescita dell’8 percento annuo.
Vi sono certamente alcuni punti di contatto – la “sconfitta” americana, gli enormi costi (finanziari e umani), l’“abbandono” degli alleati (i sudvietnamiti prima e il governo afgano di Ashraf Ghani poi) alla mercé dei vincitori – tra quanto accaduto in Vietnam alla metà degli anni Settanta e ciò di cui tutti noi siamo stati testimoni da alcuni giorni a questa parte.
È importante, tuttavia, rintracciare anche alcune marcate differenze tra i due avvenimenti, di cui molti non tengono conto, abbagliati soprattutto dalle assonanze “simboliche”. In primo luogo, i due conflitti emergono da contesti geopolitici molto differenti: la guerra del Vietnam rappresentò la quintessenza (insieme alla guerra di Corea) del confronto tra capitalismo e comunismo nel preciso quadro del confronto bipolare della guerra fredda; il coinvolgimento statunitense in Afghanistan – trasformato nella base operativa di al-Qaida – fece seguito alla ferita aperta dagli eventi dell’11 settembre 2001, in seguito ai quali gli americani cercarono di sostituire il governo dei talebani con uno maggiormente inclusivo.
In secondo luogo, il governo afgano, così come le forze armate, si è sciolto come neve al sole dopo sole due settimane dall’inizio dell’offensiva talebana; in Vietnam, al contrario, i sudvietnamiti cercarono strenuamente di resistere alle offensive delle forze del nord anche dopo l’abbandono delle truppe americane nel 1973, almeno fino a quando non terminarono le munizioni e dovettero arrendersi ai vietcong.
Prevedere il futuro
In aggiunta, prima che Saigon cadesse nelle mani dei nordvietnamiti, nell’aprile del 1975, gli americani erano perfettamente consci del fatto che ciò sarebbe accaduto; i servizi di intelligence americani, al contrario, sono apparsi sorpresi dall’accelerazione impressa dai talebani, come peraltro confermato dallo stesso Biden in molteplici interviste.
Ciò che resta sono le molteplici domande riguardanti i limiti dell’intervento americano in paesi terzi; il messaggio che il disimpegno americano manda alle altre nazioni; la possibilità che una strategia di disimpegno diversa avrebbe potuto condurre a conseguenze di altro genere. Agli storici toccherà prima o poi fornirci una risposta.
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