- Siamo passati dal dibattito quotidiano sugli scenari disastrosi che lo sblocco dei licenziamenti doveva produrre al sostanziale silenzio in materia.
- Una recente indagine di Eurofound e della Commissione Europea mostra come durante la pandemia coloro che hanno pagato di più le conseguenze dell’immediata crisi economica sono stati soprattutto i lavoratori temporanei.
- In Italia questo ha voluto dire un forte calo dei lavoratori a termine e soprattutto dei lavoratori autonomi per i quali ancora oggi mancano all’appello circa 300 mila unità rispetto al pre-pandemia.
È passata sotto silenzio la notizia del nuovo stanziamento per la cassa integrazione fino a fine anno. La cosa colpisce non tanto per la poca attenzione su un tema che di per sé è complesso, ma perché siamo passati dal dibattito quotidiano sugli scenari disastrosi che lo sblocco dei licenziamenti doveva produrre al sostanziale silenzio in materia.
Un silenzio che si accompagna dai pochi dati a riguardo che sembrano dirci che un calo degli occupati a tempo indeterminato causato da licenziamenti al momento non sia avvenuto.
Un silenzio, soprattutto da parte sindacale, che fa immaginare che questo calo non sia più neanche previsto, come dimostra l’assenza di allarmi in materia.
Ma questo non cancella quella che dovrebbe essere la principale preoccupazione per le condizioni del mercato del lavoro italiano, preoccupazione che il blocco dei licenziamenti non avrebbe in ogni modo quietato, anche se fosse stato prolungato. Ossia il fatto che, come dimostra una recente indagine di Eurofound e della Commissione Europea, durante la pandemia coloro che hanno pagato di più le conseguenze dell’immediata crisi economica sono stati soprattutto i lavoratori temporanei e che già si posizionavano nelle ultime posizioni per quanto riguarda i salari (spesso giovani e donne).
Chi ha pagato la crisi
In Italia questo ha voluto dire un forte calo dei lavoratori a termine e soprattutto dei lavoratori autonomi per i quali ancora oggi mancano all’appello circa 300 mila unità rispetto al pre-pandemia.
Di questo tipo di lavoro, che va ad alimentare i cosiddetti working poors difficilmente si parla quando si affronta il tema che oggi sembra all’ordine del giorno: la riforma degli ammortizzatori sociali.
Nessuno nega l’importanza di un processo di razionalizzazione degli strumenti di sostegno al reddito dei lavoratori, le cui criticità e incongruenze sono ben emerse durante la pandemia.
Il rischio è che da questo discorso vengano ancora tagliati fuori proprio i lavoratori più poveri e in difficoltà che l’Eurostat stimava in oltre il 15 per cento nel 2019 e che il recente rapporto Caritas sulla povertà stima nel 2020 intorno al 20 per cento.
Lavoratori che subiscono oggi le costanti transizioni tra periodi di lavoro e non lavoro e che fuoriescono in modo discontinuo tra condizioni di occupazione, disoccupazione e inattività. Persone che, inoltre, spesso non hanno i requisiti di reddito per accedere al reddito di cittadinanza a causa proprio della discontinuità di lavoro. Ma anche persone che avevano lavori che gli consentivano di appartenere alla sempre più ridotta classe media ma che hanno perso il lavoro proprio nell’ultimo anno e mezzo.
È bene ricordare infatti che nonostante il blocco vigente in Italia tra il 2020 e i primi sei mesi del 2021 abbiamo avuto circa 800 mila lavoratori licenziati.
La riforma degli ammortizzatori
Questo quadro dipinge uno scenario molto variegata e che dovrebbe orientare una riforma degli ammortizzatori sociali che sia all’altezza di questo nome.
Riformare non significa solo razionalizzare e aumentare le risorse, ma significa oggi immaginare forme di tutele trasversali che vadano oltre alla tipologia contrattuale del lavoratore.
Non è una proposta inedita, si trova anche all’interno del Pilastro Sociale proposto negli ultimi anni proprio a livello europeo laddove si parla esplicitamente di diritto di tutti i lavoratori, al di là del tipo di contratto e della sua durata, ad un accesso alla protezione sociale e alla formazione.
Scardinare l’accesso agli ammortizzatori sociali, e soprattutto alle politiche attive ,dalla tipologia contrattuale che si ha o che si ha avuto in passato è quindi il primo passo per una vera riforma del sistema delle politiche del lavoro in Italia.
Una riforma che includa il più possibile tutte le diverse tonalità di grigio che caratterizzano il nostro mercato del lavoro. Un passaggio che occorrerebbe affiancare ad una riforma delle politiche attive di cui ancora oggi sappiamo poco e che pare ancora essere ancorata ad un modello di intervento basato sul dualismo occupato-disoccupato proprio delle transizioni lavorative novecentesche.
Al contrario, per completare la riforma degli ammortizzatori sociali e per renderla sostenibile, andrebbe costruito un sistema di tutele attive, un vero e proprio diritto alla transizione professionale che rende a tutti possibile l’accesso (anche economico) alla formazione e alla riqualificazione come strumenti che controbilancino i rischi che il modello economico-produttivo in cui viviamo chiede e che solo così possiamo tentare di sopportare.
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