- Davvero non capisco perché ormai si tenda a pensare che parlare di bellezza fisica dei corpi (soprattutto femminili) equivalga a “giudicarli” e finisca inevitabilmente per «deridere il prossimo».
- Addirittura, e col pregio della chiarezza, un articolo a firma di Letizia Pezzali (uscito su questo giornale lunedì 20 giugno) sostiene che «il prezzo da pagare per avere un canone è rovinare la vita alle persone”; e rincara la dose assicurandoci che secondo lei “il desiderio sessuale […] è la ragione per cui ci interessano i corpi».
- Ah sì? Veramente la bellezza del corpo umano è solo una questione di piacere privato, di “mi piace o non mi piace” ?
«E’ molto abbronzata dal sole, è brutta, ha la testa squadrata e malformata, è la riproduzione implacabilmente fedele di una giovane campagnola che non si è mai guardata nello specchio…»” – body shaming, razzismo classista di un critico d’arte che così descriveva un quadro (La fienagione) di Bastien-Lepage comparso al Salon del 1877 ?
La frase però termina così: «nello specchio dell’ideale». La parola “ideale”, mi sembra, sposta la questione su un piano più interessante.
Davvero non capisco perché ormai si tenda a pensare che parlare di bellezza fisica dei corpi (soprattutto femminili) equivalga a “giudicarli” e finisca inevitabilmente per “deridere il prossimo”. Addirittura, e col pregio della chiarezza, un articolo a firma di Letizia Pezzali (uscito su questo giornale lunedì 20 giugno) sostiene che «il prezzo da pagare per avere un canone è rovinare la vita alle persone»; e rincara la dose assicurandoci che secondo lei «il desiderio sessuale […] è la ragione per cui ci interessano i corpi». Ah sì? Veramente la bellezza del corpo umano è solo una questione di piacere privato, di «mi piace o non mi piace»?
«Non è bello quel che è bello, è bello quel che piace» era la freddura con cui si cercava di prendere punti col sette di coppe giocando a scopa.
Tra gusto e canone
Quando si tratta di sesso e desiderio personale, è del tutto ovvio che le cose stiano come sostiene Letizia Pezzali: i gusti sono vari e variabili, e spesso è proprio ai difetti fisici della persona amata, ai dettagli che scartano dalla bellezza canonica, che appendiamo più ferocemente il nostro amore (e il nostro rimpianto, nel ricordo).
Ma il canone, a partire da quello famoso di Policleto del V secolo a.C., è sempre stato un affare collettivo e non si preoccupava dei singoli desideri personali.
Era, praticamente, un’indicazione per gli scultori e gli architetti; da lì attraverso Vitruvio si arriva all’uomo di Leonardo inscritto nel quadrato e nel cerchio (quello che sta sui nostri euro).
La funzione pratica si è complicata man mano di armoniche filosofiche ed esoteriche, l’uomo misura di tutte le cose, la corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo eccetera.
Era una questione di proporzioni e di armonia; discutibili e discusse, sia l’una che le altre, già al tempo di Lisippo; forse che la testa sia lunga un ottavo dell’intero corpo è troppo, forse il rapporto tra spalle e fianchi può essere meno quadrato.
Si dimentica che i canoni in una determinata epoca sono sempre stati più di uno: la bellezza di Venere non è quella di Diana né quella di Giunone, Ercole non è Apollo.
Per non dire di quanto i canoni di bellezza possono variare secondo il tempo (dalle Veneri paleolitiche a Giorgione, da Rubens ai Preraffaelliti e a Schiele) o secondo lo spazio (sculture nigeriane, donne di Utamaro).
Nel Medioevo esistevano scale di valore diverse a seconda che le bellezze femminili venissero elencate per proporzione o per colore; le descrizioni dei corpi belli erano fatte dalla testa ai piedi, perché così si pensava avesse proceduto Dio nel corso della Creazione (tant’è vero che i pagani venivano descritti dai piedi alla testa).
Sia nel paganesimo che nel cristianesimo, la difficoltà e la consolazione di unire l’umano al divino passavano attraverso la bellezza del corpo, nell’arte figurativa e negli scritti: che effetto farebbero ancora oggi un Cristo obeso, o una Madonna col naso storto e le orecchie a sventola?
Certo non si pensava, almeno fino al Settecento, che la natura “ideale” dei corpi divini potesse venir imitata e addirittura sfidata nella vita empirica; quei disgraziati che ci provavano facevano una fine tremenda (vedi la povera Chione, uccisa da Artemide con una freccia alla gola).
Lo stesso Don Giovanni, quando cerca di mettere in pratica il catalogo platonico nella vita comune, si ritrova con in mano un pugno di mosche e poi dritto all’inferno.
Certe regole “canoniche” non esistono in natura (tipo i capelli color del grano maturo e le sopracciglia nere come l’ebano); l’ideale è ultra-natura, un parametro su cui misurare la nostra miseria, altro che body positivity.
La Natura stessa se ne stupisce e quasi se ne vergogna; il trucco e la chirurgia non possono offrire che graziosi e comici surrogati.
Il problema della bruttezza
Solo da poco è invalsa l’opinione che parlare di un corpo bello o brutto significhi “giudicarlo”, e che le persone soffrano all’idea di non poter raggiungere la bellezza ideale (strana pretesa).
L’ideale non è una “media”, è un punto di riferimento assoluto che rende significativa l’infrazione quando il canone si irrigidisce e si logora: così per esempio la Fosca di Ugo Tarchetti è interessante perché la sua bruttezza incarna le perversioni baudelairiane, e Giacomo Debenedetti ci spiegò che “l’invasione dei brutti” nel romanzo raccontava le ansie e le insoddisfazioni del primo Novecento. Perché appiattire questo gioco di forze ?
Giudicare, o peggio deridere, i corpi è infame; ma perché confrontarsi a un ideale, vigente di volta in volta nel nostro patrimonio culturale, dev’essere per forza così distruttivo?
Non si potrebbe, per esempio, fare proprio di questo décalage tra empirico e ideale un percorso di conoscenza? Accettare la vittoria del tempo sulla forma fisica è un gesto di responsabilità, il barocco ce lo ricordava ponendo lo scheletro alla fine della filiera. E fornire ai giovani, maschi o femmine che siano, l’autoironia sufficiente a rovesciare la derisione in superiorità non sarebbe un buon compito pedagogico?
Non ha senso sacrificare una cosa preziosa come i criteri di bellezza solo perché esistono vittime della stupidità altrui. Perché invece non ammirare la bellezza fisica di un uomo o di una donna reali come se fosse una preghiera non detta all’ideale di cui quel corpo è il provvisorio rappresentante sulla terra?
Perché lasciare questo lavoro interiore così intimo, così nutriente, alla pubblicità e ai “divismi” ormai deteriorati della Rete?
Il senso dell’ideale
I canoni sono una cosa seria, non possiamo ridurli a una chiacchiera social. Platone non ha scritto soltanto il Fedro e il Simposio ma anche i dieci libri della Politeia, cioè ha provato a delineare lo “Stato ideale”.
Mi colpisce che adesso dell’ideale si faccia un uso così disinvolto da poterlo confondere con poco più di un parere da consumare in fretta: i nostri ideali, il peso-forma ideale, “quali sono i tuoi viaggi ideali per l’estate ?”.
In politica, la parola è diventata insopportabilmente retorica: tutti rimpiangono la perdita di una “tensione ideale”, salvo poi non saperla dettagliare in maniera non generica.
La pace, l’uguaglianza tra tutti gli uomini (anzi, tra tutte le persone viventi e non), i diritti degli animali e delle piante, migliorare il tenore di vita mantenendo verdissimo il pianeta.
Come nel caso della bellezza fisica, sembra da prepotenti e da non inclusivi porre l’ideale come una franca e consapevole utopia, un modello irraggiungibile che proprio per questo giustifica una dinamica di sogno eroico e lucidità.
La Città Ideale, la Tradizione, il Comunismo, il Messia: non ci si fida più. «La plebe, sempre all’opra china/ senza ideale in cui sperar» cantavano gli Internazionalisti con quel che seguiva, «su lottiam, l’Ideale nostro alfine sarà», con la maiuscola. Tutto minuscolo ora, nessuna parentela tra corpo e cosmo da quando sappiamo che la realtà si può spiegare meglio con la teoria del caos.
Niente più bello e brutto, niente più maschio e femmina, indigeno e straniero (a New York amici mi hanno avvisato che può risultare “potenzialmente offensivo” domandare a qualcuno di che nazionalità sia).
Per paura dei conflitti (intimi o pubblici) che possono nascere se confrontiamo l’ideale con quel che la Storia empiricamente ci presenta, qui e ora, sembra che il solo vero ideale degno di esser perseguito sia la preoccupazione di non offendere nessuno.
Con questo antitragico irenismo in cui ogni angoscia svapora (salvo identificare ogni tanto qualche Arimane a cui non sappiamo contrapporre nessun Ormuz, ah il canone della democrazia !), con questa timidezza di desideri e di obiettivi, con questo accecarsi di fronte all’impossibile, così equipaggiati intendiamo andare incontro alle guerre future, agli scontri feroci di popoli e di classi ?
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