Parte dei fondi di Next Generation EU (Ngeu) destinati all’Italia dopo l’approvazione del nostro Pnrr finanziano progetti preesistenti il piano. Usiamo le risorse comunitarie destinate a stimolare e riconvertire l’economia dopo il trauma della pandemia per spese pensate prima del Covid. Ciò ha una valenza negativa, messa in luce dal fondo del direttore di Domani, Stefano Feltri, del 26 settembre. Ma in parte è compatibile col programma europeo e ha aspetti positivi.
All’Italia è toccata la parte di gran lunga maggiore degli stanziamenti Ngeu (più di un quarto del totale contro un Pil poco sopra il 10 per cento di quello dell’Ue). Il nostro Pnrr ha chiesto l’intero ammontare assegnatoci. Per gli altri maggiori Paesi UE è stato stanziato meno ma, soprattutto, i loro Pnrr chiedono molto meno di quanto stanziato a loro favore.
La politica monetaria spiazza quella fiscale
Germania, Francia e Spagna hanno chiesto solo la parte “a fondo perduto”, tralasciando i prestiti europei che sarebbero stati disponibili. Altri Paesi hanno fatto come loro e persino il Portogallo ha chiesto meno prestiti di quanto avrebbe potuto.
Il gran volume dei fondi Ngeu dovrebbe fra l’altro giustificare importanti emissioni di eurobond e nuovi prelievi comunitari come le tasse ecologiche e sulle transazioni finanziarie, una quota di imposte societarie ed altro ancora.
Il fatto che tale volume risulti ridimensionato, perché la somma delle richieste degli Stati membri è inferiore agli stanziamenti disponibili, non sarebbe un fatto positivo per l’integrazione comunitaria.Perché succede questo quando i fabbisogni di quasi tutti i governi sono stati e rimangono elevati anche in seguito allo shock pandemico e agli stimoli fiscali alla crescita?
Due fattori possono contribuire a rispondere. Intanto il tentativo di moderare comunque l’indebitamento dei prossimi anni per normalizzare gradualmente i bilanci dopo la pandemia, facendo anche fronte alla reintroduzione di una qualche forma di Patto di Stabilità.
E poi il fatto che gli acquisti di titoli pubblici da parte della Bce permettono di indebitarsi a tassi che, per molti Paesi, sono probabilmente inferiori a quelli che graveranno sui prestiti Ngeu e, soprattutto, senza vincolare la destinazione dei finanziamenti alle finalità comunitarie dei Pnrr su cui la Commissione eserciterà controlli minuziosi.
La politica monetaria europea fortemente espansiva spiazza cioè quella fiscale comune. Da un lato diciamo che la Bce dovrebbe passare il testimone degli stimoli macroeconomici a un bilancio europeo più ambizioso, dall’altro è proprio la facilità e i tassi persino negativi con cui i governi si finanziano sul mercato, con titoli che vengono poi acquistati dalle banche centrali, che sfavorisce un maggior accentramento delle finanze pubbliche.
L’eccezione italiana
Da questo punto di vista l’Italia è un’eccezione ben comprensibile. Chiediamo tutto quanto viene per noi stanziato perché lo spread che il rischio Italia aggiunge ai tassi pagati dal nostro governo ai mercati riduce un poco la loro convenienza rispetto al costo futuro dei debiti Ngeu; e perché il nostro debito pubblico è talmente alto che conviene approfittare al massimo dei prestiti europei per ridurre, a parità di altre condizioni, il ricorso futuro al mercato che potrebbe accrescere ancor più lo spread e confliggere col futuro Patto di Stabilità.
Il quale, per quanto meno “austero” e più efficiente del precedente, difficilmente ci esimerà dal ridurre il rapporto debito/Pil con qualche sollecitudine. Infatti, se è vero che con la pandemia quasi tutti i governi hanno aumentato molto il debito e l’eurozona nel suo complesso eccede ora il rapporto del 100 per cento, solo 14 dei 27 Paesi membri ha un rapporto che eccede l’obiettivo di Maastricht del 60 per cento, solo in 10 supera l’80 per cento e solo in 7 il 100 per cento. Se in un nuovo accordo, che dovrà essere unanime, conterà un poco la pressione della maggioranza dei Paesi, il nostro 160 per cento dovrà diminuire abbastanza svelto.
Oltre che comprensibile, l’eccezione italiana ha aspetti positivi, anche quando i fondi sono usati per progetti precedenti la pandemia. Se questi sono coerenti con gli obiettivi di Ngeu (come, ad esempio, alcune infrastrutture ferroviarie) finanziarli con i fondi per la transizione post-Covid (preparandosi a stornare almeno altrettanto dal disavanzo dei prossimi anni) significa “europeizzare” una parte, quella giusta, della nostra spesa pubblica.
Accettando controlli qualitativi da Bruxelles contribuiamo a una strategia fiscale più integrata e a un bilancio comunitario più ampio, con un disavanzo dedicato a nutrire spese di interesse comunitario. Purtroppo, è il caso di dire, non fanno altrettanto Francia, Spagna e Germania.
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