Dopo soli tre anni, il governo vuole reintrodurre il voto numerico alla primaria: una scelta contraria a ogni sapere pedagogico. La valutazione descrittiva tende a essere molto più informativa ed efficace di quella basata sul voto, che invece si rivela generalmente inaffidabile, per nulla chiara e dunque poco utile se l’obiettivo è quello di migliorare gli apprendimenti e non quello di classificare alunne e alunni
La sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti ha recentemente dichiarato che «tornerà il voto alla scuola elementare». Frassinetti ha motivato la sua affermazione sostenendo che la valutazione non numerica avrebbe creato confusione e complicato il lavoro di scuole e docenti. Il ritorno al voto numerico rappresenterebbe il cambiamento di rotta più repentino nella nostra storia valutativa. I livelli descrittivi sono stati introdotti meno di tre anni fa, con l’Ordinanza Ministeriale 172 del 4/12 2020. Questa ordinanza stabilisce che nella valutazione periodica e finale (ovvero quella relativa alle schede di fine quadrimestre e fine anno) al posto del voto numerico su una scala a 10 per ciascuna disciplina venga fornito il livello (su una scala a 4: in via di prima acquisizione, base, intermedio, avanzato) raggiunto rispetto a obiettivi specifici di apprendimento. Per esempio, se prima del 2021 la scheda di un ipotetico alunno registrava un generico “7” in Italiano, oggi nella stessa disciplina la scheda riporta che quell’alunno ha raggiunto il livello “avanzato” nella comprensione del testo e il livello “base” nella produzione scritta.
Se dal punto di vista pratico le critiche di Frassinetti farebbero riferimento al vissuto della classe docente, dal punto di vista teorico esse richiamano l’idea che vuole il voto numerico più chiaro e semplice da comprendere rispetto a una valutazione descrittiva. Prima di approfondire la questione legata alla reazione di scuole e docenti è utile ragionare sulla pretesa superiorità del voto numerico. Si tratta di un’opinione molto popolare e diffusa che però non corrisponde alla realtà. In base a quanto abbiamo appreso nel corso degli ultimi cinquant’anni attraverso studi empirici condotti sulle concrete prassi didattiche possiamo infatti affermare che la valutazione descrittiva tende a essere molto più informativa (per alunni e famiglie) ed efficace (orienta l’apprendimento) di quella basata sul voto, che invece si rivela generalmente inaffidabile (in assenza di criteri descrittivi, docenti diversi forniscono voti diversi alla stessa attività), per nulla chiara (un 6 indica semplicemente che s’è preso più di 5 e meno di 7) e dunque poco utile se l’obiettivo è quello di migliorare gli apprendimenti e non quello di classificare alunne e alunni.
Chiarito che la posizione di Frassinetti non sembra fondata dal punto di vista pedagogico, va rilevato che una valutazione descrittiva richiede, a differenza di quella basata sul voto, competenze metodologiche non banali da parte dell’insegnante. Quest’ultima considerazione ci consente di affrontare la questione legata alla reazione del corpo docente alla nuova valutazione. Il Ministero non ha approntato alcun piano di monitoraggio dell’attuazione della riforma, per cui le dichiarazioni della sottosegretaria sembrano sprovviste di una base empirica. Nell’attesa di un monitoraggio gestito da viale Trastevere, nel 2021 come Università Roma Tre abbiamo condotto un’indagine empirica che ha coinvolto oltre 700 insegnanti (C. Corsini, V. Felici, C. Gueli, Il passaggio dai voti ai giudizi descrittivi nella scuola primaria, in Lifelong, Lifewide Learning, 19, 2023).
Abbiamo riscontrato come già nel primo anno di attuazione l’atteggiamento di maestre e maestri nei confronti della riforma fosse molto eterogeneo e strettamente legato alla loro formazione pedagogica e didattica. Infatti, a esprimersi a favore delle nuove modalità valutative erano in prevalenza docenti con una preparazione tale da consentire loro di osservare e documentare lo sviluppo degli apprendimenti di alunne e alunni nel corso della didattica attraverso riscontri valutativi descrittivi. Al contrario, a esprimere opposizione e disorientamento verso l’abbandono dei voti numerici erano soprattutto insegnanti che prima del 2020 non valutavano fornendo informazioni analitiche sui punti di forza e di debolezza delle attività svolte. Seguendo poi diverse scuole in questi tre anni abbiamo potuto osservare che generalmente dove c’è stata una formazione in servizio partecipata il passaggio dai numeri ai livelli non ha determinato confusione, ma ha migliorato la qualità dei processi didattici e la comunicazione con le famiglie.
La situazione non è dunque affatto fallimentare, semmai è eterogenea e necessiterebbe di investimenti su monitoraggio e formazione in servizio. L’ipotizzato passo indietro sarebbe uno schiaffo per docenti e dirigenti che in tre anni hanno sviluppato la propria professionalità condividendo con la comunità educativa un percorso di crescita.
Una valutazione realmente educativa richiede buone competenze metodologiche ed è agevolata da tempi distesi che però sono più difficili da ricavare in aule affollate. Il nostro è un paese che non verifica l’efficacia delle scelte effettuate sull’istruzione e non investe adeguatamente sulla formazione in servizio né sull’organico delle scuole. In questo contesto il ritorno al voto numerico sarebbe un intervento demagogico a costo zero, utile forse solo dal punto di vista elettorale: un cinico patto al ribasso sulla pelle di alunne e alunni. Una soluzione che disorienterebbe la comunità scolastica con l’ennesimo passo indietro e rappresenterebbe un’umiliazione per dirigenti e docenti che in questi tre anni hanno lavorato con un impegno che merita altra considerazione.
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