- A osservarla da qui, con occhi distratti, la repressione scatenata dall’esercito e dalla polizia del Perù a dicembre e a gennaio, dopo la crisi politica seguita all’auto golpe del presidente Pedro Castillo e la nomina alla presidenza di Dina Boluarte, sembrava qualcosa di “ordinario”.
- Poi, dal 29 gennaio all’11 febbraio, una delegazione di Amnesty International si è recata nel paese sudamericano.
- A quel punto, i 48 morti e gli oltre 1200 feriti durante le manifestazioni hanno iniziato ad avere non solo un nome ma anche una storia: la repressione è stata massiccia soprattutto nelle regioni dove vive un’ampia popolazione contadina e nativa
A osservarla da qui, con occhi distratti, la repressione scatenata dall’esercito e dalla polizia del Perù a dicembre e a gennaio, dopo la crisi politica seguita all’auto golpe del presidente Pedro Castillo, deposto entro poche ore, e la nomina alla presidenza di Dina Boluarte, sembrava qualcosa di “ordinario”: chi assume il potere decreta lo stato d’emergenza e usa il pugno di ferro contro le proteste.
Poi, dal 29 gennaio all’11 febbraio, una delegazione di Amnesty International si è recata nel paese sudamericano. A quel punto, i 48 morti e gli oltre 1200 feriti durante le manifestazioni hanno iniziato ad avere non solo un nome ma anche una storia: la repressione è stata massiccia soprattutto nelle regioni dove vive un’ampia popolazione contadina e nativa.
Mentre le regioni dove i nativi sono la maggioranza raggiungono solo il 13 per cento della popolazione complessiva del Perù, l’80 per cento delle morti registrate dallo scoppio della crisi è stato conteggiato lì. Ciò lascia intendere che le autorità abbiano agito sulla base di un chiaro pregiudizio razziale, prendendo di mira popolazioni storicamente discriminate.
In altre parole, il razzismo sistemico che permea da decenni la politica peruviana è stato l’acceleratore della violenza di stato, usata per punire comunità che avevano osato alzare la voce contro la loro emarginazione.
Come animali
Non tutte le proteste sono state pacifiche: tra le forze di sicurezza si sono contati un morto e 580 feriti. Ma, pressoché ovunque, la prima opzione è stata quella di usare armi letali per uccidere o per procurare il maggior danno possibile: «Ci consideravano animali, non persone», ha detto una manifestante ai ricercatori di Amnesty International.
Nelle 12 uccisioni su cui l’organizzazione per i diritti umani ha svolto indagini accurate sul campo, è emerso che tutte le vittime erano state colpite al petto, al tronco o alla testa: un’indicazione che, almeno in alcuni casi, l’uso della forza letale potrebbe essere stato intenzionale.
L’effetto combinato della repressione mirata contro campesinos e nativi e della marginalizzazione delle regioni in cui vivono ha prodotto effetti a catena, come il ritardo nei soccorsi e nelle ospedalizzazioni e l’impossibilità di accertare le cause delle morti.
Robert Pablo Medina Llanterhuay, studente di 16 anni e figlio di un contadino, è stato ucciso il 12 dicembre a Chincheros dopo essere stato visto camminare tra un gruppo di dimostranti con in mano una piccola bandiera del Perù.
È stato colpito mortalmente al petto mentre le forze di polizia lanciavano gas lacrimogeni da distanza ravvicinata. L’ospedale più vicino in grado di eseguire un’autopsia era a diverse ore di strada e la famiglia ha dovuto seppellire il ragazzo senza che venisse effettuato l’esame autoptico.
Secondo le organizzazioni per i diritti umani peruviane, sono state centinaia le persone trasferite negli ospedali della capitale Lima a causa della mancanza di risorse per la sanità pubblica territoriale. In queste condizioni, la volontà di contribuire alla ricerca della giustizia latita.
Beckham Romario Quispe Rojas, 18 anni, calciatore e figlio di contadini di lingua quechua, è morto durante una protesta ad Huancabamba, Andahuaylas, su una pista di atterraggio dismessa. L’autopsia, effettuata a distanza di un mese, non ha chiarito che tipo di proiettile abbia causato la sua morte.
Le autorità peruviane, ai più alti livelli, hanno imposto un discorso stigmatizzante nei confronti dei dimostranti, affermando senza alcuna prova che fossero legati al “terrorismo” e a gruppi criminali, con l’obiettivo di delegittimare le loro rivendicazioni e giustificare le violazioni dei loro diritti umani. Così, oltre 20 persone ferite nel corso delle proteste da candelotti di gas lacrimogeno, proiettili o pallini da caccia non hanno denunciato quanto accaduto per il timore di finire sotto inchiesta. Alcune di loro hanno ricevuto telefonate minatorie o sono state pedinate dalle forze di polizia.
In conclusione, la grave crisi dei diritti umani in corso in Perù è alimentata da stigmatizzazione, criminalizzazione e razzismo contro i popoli nativi e le comunità contadine che oggi scendono in strada esercitando i loro diritti alla libertà di espressione e di manifestazione e, per tutta risposta, ricevono solo violenza. I massicci attacchi contro la popolazione di questi ultimi mesi chiamano in causa le responsabilità penali individuali delle autorità, anche ai più alti livelli, riguardo alle loro azioni e alle loro omissioni. Perché la crisi cessi, dovranno risponderne.
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