- Il Pnrr prevede il rafforzamento del ruolo del ministero dell’Economia e delle finanze per la valutazione ex-ante ed ex-post degli investimenti pubblici
- Le valutazioni di infrastrutture contenute nel documento sono solo due, relative a progetti già approvati dal precedente esecutivo e metodologicamente errate
- Perché si possa davvero distinguere il debito buono da quello cattivo occorre adottare l’approccio standard e portare in capo al Mef la responsabilità della valutazione
Tra le riforme delineate nel Pnrr è previsto il rafforzamento del ruolo del ministero dell’Economia ai fini della valutazione della spesa pubblica. In particolare, viene auspicata «l’implementazione di nuove strutture appositamente dedicate per la valutazione ex-ante delle proposte e di quella ex-post dei risultati. L’obiettivo è quello di conseguire maggiore efficienza della spesa ed efficacia delle politiche pubbliche, anche al fine di destinare risorse al finanziamento di riforme della tassazione e della spesa pubblica».
Il proposito è assai lodevole ma la realizzazione, per ora, appare insoddisfacente, basta guardare alla Missione 3 del Piano, quella che si occupa di “Infrastrutture per una mobilità sostenibile”. Le prime diciassette pagine del relativo allegato contengono un’illustrazione sommaria delle principali caratteristiche tecniche di quattordici nuovi progetti ferroviari. Non viene fornito alcun elemento di valutazione e neppure vi è un’indicazione di massima dei costi.
A pagina 18, sorpresa! Si trova il frontespizio dell’analisi costi–benefici di un progetto già in fase di realizzazione, la linea Alta velocità Napoli–Bari. A seguire, la valutazione di un’altra opera che aveva già ottenuto il via libera dal precedente esecutivo, la linea AV/AC Milano–Venezia (tratte Brescia-Verona e Verona-Padova).
Sembra di capire che, non essendo possibile preparare una portata fresca e gustosa, si sia scelto come ripiego di infarcire il documento con un piatto pronto scongelato al momento. Il risultato non è convincente.
Una prima perplessità riguarda il cuoco. Le due analisi sono state realizzate a cura della direzione Pianificazione strategia di Rfi, il gestore dell’infrastruttura ferroviaria nazionale, partecipata al cento per cento da Ferrovie dello stato italiane.
Ora, nel caso di un investimento privato, è del tutto scontato che il compito di valutarne la redditività sia responsabilità della società che se ne farà carico ma in quello in oggetto la condizione è assai diversa.
Il soggetto che realizza il progetto non rischia alcunché: le risorse impiegate sono interamente a carico dello stato e il ritorno finanziario atteso nullo.
Semplificando, ma forse neppure troppo, l’obiettivo aziendale è verosimilmente quello di massimizzare l’ammontare dei trasferimenti pubblici. La metodologia adottata per le valutazioni è coerente con questa finalità.
Meno strada
Sia nel caso della Napoli–Bari che per la Brescia–Verona–Padova la quota largamente maggioritaria – il 70,2 per cento nel primo caso e l’86,5 per cento nel secondo – dei benefici stimati è riconducibile a una singola voce, i “risparmi di costi operativi strada”, ossia i soldi che non vengono più spesi da coloro che oggi si spostano in auto ma che, dopo la realizzazione del progetto e il miglioramento del servizio, sceglieranno il treno.
A buon senso l’assunzione sembrerebbe valida, ma così non è. L’approccio corretto per stimare i benefici ottenuti da chi cambia mezzo di trasporto, definito per la prima volta a metà Ottocento dall’economista-ingegnere Jules Dupuit, ignora del tutto i costi sostenuti nella situazione di partenza e considera solo il cambiamento che interviene per il modo di trasporto di destinazione.
Il massimo vantaggio è conseguito da coloro per i quali oggi l’alternativa stradale e quella ferroviaria sono equivalenti: per costoro il beneficio è pari al miglioramento del servizio ferroviario reso possibile dall’investimento mentre è di pochissimo superiore a zero per chi nella situazione di partenza considerava il treno peggiore dell’auto in misura identica alla trasformazione positiva intervenuta.
Coloro che reputavano il divario maggiore, continueranno a scegliere l’auto anche se questa opzione rimane in termini monetari più costosa. D’altra parte, la maggior parte delle persone preferisce questo mezzo di trasporto rispetto a quello collettivo non perché più economico ma nonostante sia molto più caro e però, al contempo, più comodo, più veloce e flessibile.
Questo “errore” di metodo determina dunque un’ampia sovrastima dei benefici. Se esso fosse corretto e se si tenesse altresì conto delle perdite che lo Stato e i concessionari autostradali subiscono, con ogni probabilità dalla promozione si passerebbe a una sonora bocciatura dei progetti. Adottare l’approccio standard e portare in capo al ministero dell’Economia la responsabilità della valutazione sembrano i due presupposti, tecnico e politico, perché si possa davvero distinguere il debito buono da quello cattivo.
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