- Non fermiamoci solo alla Russia: ci sono diverse frontiere da attraversare. Il blocco sino-russo accusa l’occidente di essere unilateralista ma gli spazi di manovra sono numerosi.
- I Balcani, il Caucaso o il nord Africa sono importanti e non vanno lasciati al caso o a nuovi protagonisti. Il motivo non è legato solo ai bisogni energetici, come il gas che viene dalla sponda sud mediterranea o dal Caspio: la questione è geopolitica.
- Il fatto che durante la Seconda Repubblica la politica estera sia stata poco considerata, sotto finanziando la nostra rete diplomatica e la cooperazione, ha bloccato sul nascere ogni riflessione geopolitica nuova mentre tutto cambiava attorno a noi. Vanno rafforzate e finanziate le nostre reti diplomatiche, economico-commerciali e culturali.
L’Europa necessita urgentemente di una politica con il suo estero vicino: tutto è in movimento non soltanto sulla frontiera orientale dell’Unione europea ma anche sui suoi confini a sud e sud-est come il Caucaso, verso il medio oriente, in Africa sub-sahariana e oltre.
Lo spazio geopolitico che medie potenze come la Turchia o l’Arabia saudita stanno conquistando non deve lasciare indifferenti. Concentrare l’attenzione esclusivamente sulla Russia rappresenta un errore strategico: è necessario riconquistare spazio di manovra su altri quadranti. Ciò vale anche per l’Italia. I Balcani, il Caucaso o il nord Africa sono importanti e non vanno lasciati al caso o a nuovi protagonisti. Il motivo non è legato solo ai bisogni energetici, come il gas che viene dalla sponda sud mediterranea o dal Caspio: la questione è geopolitica.
Il 12 giugno scorso Carlo Pelanda su La Verità ha suggerito che l’Italia si faccia promotrice di una nuova politica estera verso la “grande area grigia” che si sta allargando tra i due blocchi occidentale e sino-russo: non c’è solo “The West and the Rest” ma anche una zona intermedia e fluida.
Oltre la Russia
L’idea euro occidentale era di portare a termine la costruzione della globalizzazione economica mediante la saldatura di grandi accordi commerciali di libero scambio: dall’Atlantico al Pacifico, incluse l’America latina e l’Asia, infine l’Africa. È stata una parte dell’occidente ad abbandonare gradualmente tale prospettiva, pensando che non fosse più conveniente.
Trump sosteneva che troppa interdipendenza indebolisce la leadership americana nel mondo. La pandemia ha confermato un allarme: il rischio che si corre se non si possiede sovranità strategica in alcuni settori, soprattutto quelli legati alla ricerca tecnologica.
La guerra ucraina ha dato il colpo definitivo alla globalizzazione già in crisi. Oggi tornano in auge i conflitti frontalieri (quindi l’importanza delle frontiere), le alleanze esclusive (non fungibili), il potere militare di tipo terrestre (la geopolitica degli spazi) e infine le identità storico-politiche, perlopiù declinate in termini di autosufficienza tecnologica.
Si torna a una rete di relazioni bilaterali sovrapposte all’intensificarsi della concorrenza tra i due blocchi nell’area grigia. Le stesse due alleanze sono assai divise al loro interno: Mosca e Pechino non sono sempre in sintonia; tra Usa ed europei (e tra europei stessi) la dialettica è intensa.
Unilateralità occidentale
La critica più forte che il blocco sino-russo fa all’occidente è di essere unilateralista, anche se all’interno di esso molti stati si muovono autonomamente, cercando di allargare la propria influenza nell’area grigia senza coordinarsi. Si tratta di un atteggiamento che caratterizza in particolare la Gran Bretagna, alla ricerca di una nuova collocazione globale.
La velocità con cui nei mesi scorsi il premier Mario Draghi e la Farnesina si sono mossi per trovare fonti di gas alternative a quello russo, fa parte di una simile tattica autonoma, che non attende né l’Ue né gli Usa.
Senza indulgere in velleitarismi, l’Italia dovrebbe darsi un’agenda in termini di relazioni esterne innovative e flessibili. Pelanda indica come esempi: accordi industriali con Giappone e Taipei (quest’ultima stretta nella burrasca provocata dalla visita di Nancy Pelosi), nonché con il Mercosur sulle tecnologie; rafforzare la presenza in Africa mediante le nostre piccole medie imprese; collaborazioni della nostra marina militare con il Sudafrica; ripresa della politica adriatica (impostata a suo tempo da De Michelis) allargandola all’area danubiana; ottenere lo status di partner degli Accordi di Abramo in medio oriente.
Tuttavia tutto ciò e altro potrà essere fatto soltanto se Roma riuscirà a riprendere in Europa il ruolo da protagonista che ebbe nelle fasi della costruzione europea, dalla fondazione fino al trattato di Amsterdam.
Un possibile futuro governo di destra non favorisce tale eventualità per mancanza di credibilità. La nostra capacità di aggiornare la politica estera rendendola più efficace, elastica e adattata a questi tempi fluidi, dipende dal ruolo che giocheremo in Europa e dalla nostra reputazione.
Le difficoltà che dal 2011 abbiamo in Libia, come pure in Tunisia o in Libano, dipendono essenzialmente dal fatto che non c’è concordanza coi nostri partner europei i quali, invece di appoggiarci o lasciarci fare, ci ostacolano e viceversa.
Cattive abitudini
La responsabilità di tale attitudine è condivisa: se non sei affidabile, ogni sgambetto è ammissibile. Inutile lamentarsi dei nostri partner se non si è in grado di rispettare prima di tutto sé stessi. Il fatto che durante la Seconda Repubblica la politica estera sia stata poco considerata, sotto finanziando la nostra rete diplomatica e la cooperazione, ha bloccato sul nascere ogni riflessione geopolitica nuova mentre tutto cambiava attorno a noi.
La cattiva abitudine di vari governi italiani e delle loro maggioranze è stata di disinteressarsi del tema negando ogni continuità istituzionale alle azioni internazionali. La parte migliore della nostra politica estera degli ultimi anni è legata esclusivamente alle relazioni con Bruxelles: far accettare il nostro debito troppo alto sfruttando la reputazione di personalità come Romano Prodi, Mario Monti o Mario Draghi.
Per contare di nuovo l’Italia deve accettare la sfida e l’onere di essere presente con una sua visione politica in tutti i quadranti citati. Questo richiede innanzi tutto uno sforzo importante di produzione di riflessione geopolitica che oggi ci manca, assieme alla costruzione di nuovi legami con alleati di ieri e di oggi ma anche oltre di essi.
In secondo luogo serve che la politica estera e i suoi addentellati sia adeguatamente finanziata, rafforzando in primo luogo la rete diplomatica all’estero, poi quella economico-commerciale e quella culturale.
L’Italia deve anche dotarsi di un nuovo strumento di presenza internazionale pubblico-privato, costruito assieme al settore privato e con i protagonisti della cultura, che oggi non possiede. Senza di ciò essere una superpotenza culturale o il paese delle Pmi rimane solo retorica. Una cooperazione internazionale 2.0 deve produrre una sinergia positiva tra: aiuto pubblico allo sviluppo, Ong/Osc, imprese e settore finanziario.
Una politica di questo tipo saprà utilizzare al meglio ciò che già abbiamo e che raramente lavora a sistema (Cdp, Sace, Simest, Ice, Aics ecc.). Intanto la cosa più urgente è iniziare ad esserci con continuità: soltanto da una stabile presenza possono nascere idee e progetti.
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