- Il populismo non è tanto un programma politico, quanto una logica fondata sulla contrapposizione tra una parte del popolo e i suoi nemici, sulla costruzione di una narrazione semplice della “verità”, e sulla sua trasmissione tramite leader carismatici.
- Almeno in Italia, queste caratteristiche si presentano non solo nella destra leghista e post-fascista e nel grillismo, ma anche, paradossalmente, nell’area liberale di centro che della lotta al populismo ha fatto una missione.
- Per tutte queste forme di populismo, il messaggio semplicistico si concretizza in proposte politiche che l’evoluzione della societa’ e della tecnologia hanno reso obsolete. Con piu’ iniziativa e coraggio e senza proporsi semplicemente come “argine” a queste tendenze, la sinistra italiana potrebbe aver di fronte un’occasione unica di riprendersi il ruolo di avanguardia culturale e sociale.
Le parole sono tutto ciò che abbiamo; per questo dobbiamo scegliere quelle giuste, sostiene Raymond Carver ne Il mestiere di scrivere. Questo è particolarmente importante quando si è chiamati a fare grandi scelte, basate sulle parole che sentiamo, come accade in una campagna elettorale. Tra i termini ricorrenti c’è “populismo”, tanto usato quanto abusato. Cercare di chiarirne il significato potrebbe quindi a definire di cosa stiamo parlando e quali veramente sono le forze politiche che più si avvicinano alla definizione, e di derivare le conseguenze sulla campagna elettorale in corso ma soprattutto sul governo (e l’opposizione) di domani.
Secondo Ernesto Laclau, filosofo che ha dedicato la sua vita al tema, vista l’eterogeneità delle sue manifestazioni non è possibile definire il populismo come un programma politico, ma piuttosto come una logica fondata sulla contrapposizione tra una parte del popolo e i suoi nemici – le élite o la casta o gli immigrati – e la costruzione di un discorso politico vuoto che tenda ad annullare le differenze insite nella società.
Una narrazione basata sulla logica della “verità semplice” è poi più potente se la sua trasmissione avviene tramite un leader carismatico. Nel nostro paese assistiamo all’adozione della logica populista da parte di numerose parti politiche.
Il populismo dove non te lo aspetti
Nella destra leghista e post-fascista questa logica è probabilmente di più immediata percezione. Il messaggio si basa sulla nostalgia del “piccolo mondo antico”, che porta con sé una malcelata avversione per il diverso considerato come nemico, come persone di orientamento affettivo non “conforme” o migranti. E, in maniera più subdola, anche la giustificazione dell’ordine economico e sociale, fatto di privilegi e rendite.
Le proposte politiche di quest’area che concretizzano questo approccio includono la riduzione delle tasse fino all’eliminazione della progressività, la lotta ai migranti e la riduzione di diritti civili percepiti in contrasto con la “famiglia naturale”.
Di rilievo, più di recente, è anche la proposta del partito di Giorgia Meloni di definire un algoritmo che assegni un lavoro ai disoccupati i quali sono costretti ad accettarlo, qualunque esso sia. La personalizzazione e l’individuazione di nemici (dalle lobby gay e del gender al complotto per la sostituzione etnica) sono altrettanto evidenti.
La preferenza per la forma di governo presidenziale è a sua volta coerente con il leaderismo carismatico che caratterizza la destra italiana.
Altrettanto evidente è la radice populista del Movimento 5 stelle, con la sua retorica della contrapposizione tra la casta e il resto della popolazione – popolazione che include allo stesso modo il lavoratore sottopagato e il suo sfruttatore, senza distinzioni. D’altronde sul blog del Movimento si legge che la lotta di classe è stata superata dalla lotta di casta.
Paradossalmente, l’area politica che più ha costruito la sua narrazione nella forma di contrasto ai populisti (i loro nemici, appunto), e cioè l’area liberale centrista, ha a sua volta tutte le caratteristiche di una proposta populista – un populismo di secondo livello.
I valori di fondo e le proposte politiche sono spesso una versione semplificata di principi economici e sociali del liberalismo ottocentesco: la capacità del mercato di autoregolarsi e generare benessere per tutti, di orientare tramite il meccanismo dei prezzi cambiamento tecnologico e commercio internazionale affinché non danneggino nessuno; la meritocrazia come criterio per stabilire il successo e spronare le persone; e il messaggio qualunquista «non esistono più la destra e la sinistra, ma solo politiche di buon senso».
Anche i partiti in quest’area sono fortemente incentrati sui loro leader carismatici (Renzi, Calenda), e anche in questo caso, la loro azione politica è narrata come “contro” qualcuno o qualcosa: gli altri tipi di populismo, i sindacati, le corporazioni, i buonisti o i vecchi partiti da “rottamare”.
Società e politica
Un mondo chiuso, fatto di una popolazione omogenea e con un ordine basato principalmente sulla famiglia tradizionale, e cioè il paradigma culturale e politico del populismo di destra, appartengono semplicemente a un’altra epoca, verso la quale, nonostante rigurgiti reazionari e protezionisti, non si tornerà. A sua volta il populismo grillino, come descritto su queste pagine da Marco Damilano, ha finito per essere vittima di sé stesso.
La confusa lotta al “sistema” nel suo complesso, senza nemmeno una specifica direzione verso cui condurre la lotta stessa (dal contrasto ai “Taxi del mare” di Luigi Di Maio al latino-americanismo da cartolina di Alessandro Di Battista), ha portato il M5s all’immobilismo una volta arrivato al potere, e quindi, di fatto, all’accettazione e conservazione del sistema esistente.
Non sorprende, quindi, che alla rapida ascesa di Lega e M5s sia seguita una altrettanto repentina caduta. Forse anche Giorgia Meloni dovrebbe farsi qualche domanda. La retorica dei liberali italiani è altrettanto problematica e scollegata dalla realtà, per numerose ragioni.
La prima è che i principi socioeconomici dei liberali nostrani sono largamente superati. Le considerazioni e proposte politiche più recenti e interessanti provengono proprio dall’eccellenza accademica di cui spesso i liberali si fanno alfieri con la loro retorica della “competenza”.
Pensiamo per esempio all’imposta patrimoniale progressiva di Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman; la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione di impresa proposta dello stesso Piketty; il nuovo ruolo per lo Stato nell’attivita industriale e innovativa discusso da John Van Reenen, Dani Rodrik e Mariana Mazzucato; l’intervento pubblico nella gestione dei processi di automazione delle imprese affinché non danneggi la creazione di buoni lavori, studiata da Daron Acemoglu; e la visione più complessa e problematica del commercio internazionale che i premi Nobel Abhijit Banerjee e Esther Duflo hanno elaborato.
La seconda ragione è che questo populismo di secondo livello confonde politica e tecnica, sostenendo che la legislazione e gestione della cosa pubblica vada affidata a presunti competenti che applichino principi e politiche frutto del senso comune.
Tuttavia le democrazie non si basano sulla tecnica, ma sulla competizione elettorale. I partiti, rappresentati di diverse istanze e interessi tra di loro in conflitto, si sfidano nell’agone pubblico cercando di attrarre i voti necessari per governare.
Non solo, ormai anche psicologi sociali e politologi hanno mostrato che la politica non è percepita come un sistema meccanico: si basa su precise scelte di campo, sui fondamenti morali che contraddistinguono diversi gruppi, su emozioni e visioni del mondo. La tecnica è funzionale a questo, non il contrario.
Superare i populismi
Lo sviluppo di proposte di politica economica e sociale più radicali come descritte qui sopra, e una visione non semplicemente tecnica ma autenticamente popolare del processo democratico, potrebbero fornire alla sinistra la possibilità di rappresentare finalmente qualcosa di diverso, di essere un’avanguardia che spinge per un mondo più giusto ed eguale sulla base sia di forti ideali e principi, sia della riflessione accademica ed evidenza scientifica.
E di liberarsi da quello che il sociologo Mark Fisher chiama “realismo capitalista”, e cioè l’idea che l’ordine economico e sociale odierno sia l’unico possibile e che la società non sia altro che l’aggregazione di individui. Una visione, tipica dei populismi, che finisce per fare della politica una mera amministrazione dell’esistente o un ritorno al passato.
Per troppo tempo ormai, la sinistra italiana è stata piuttosto un “partito della non-destra” come quello che Corrado Guzzanti aveva inventato nel suo spettacolo “Millenovecentonovantadieci” venticinque anni fa. Incapace di proporre una visione politica autonoma per il futuro, ha operato come argine e poco altro: guardiana di un tempio in cui si moltiplicano povertà, disagio e disuguaglianze.
Magari questa è la volta buona per una svolta. I fondamenti e le idee ci sono eccome. Speriamo arrivino anche volontà e coraggio.
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