- I fattori che facilitano l’avvento di governi populisti sono da qualche anno un attento oggetto di studio. Minore è l’attenzione a come si esce dal populismo. Se poi populismo e pandemia si trovano a fare un pezzo di strada insieme, la questione si fa ancora più stringente.
L’Europa e gli Stati Uniti sono oggi portatori di due traiettorie diverse di uscita dal populismo.
L’una cerca di domare il populismo con la tecnocrazia, trasportando a livello nazionale la metodologia ipopolitica perfezionata a Bruxelles. Gli Stati Uniti propongono con l’amministrazione Biden un’inedita quanto inaspettata svolta socialdemocratica.
I fattori che facilitano l’avvento di governi populisti sono da qualche anno un attento oggetto di studio. Minore è l’attenzione a come si esce dal populismo. Se poi populismo e pandemia si trovano a fare un pezzo di strada insieme, la questione si fa ancora più stringente poiché il Covid-19 precipita le nostre società in un baratro di più penose disuguaglianze, aggravando le condizioni che hanno tradizionalmente facilitato il successo populista.
L’Europa e gli Stati Uniti sono oggi portatori di due traiettorie diverse di uscita dal populismo. L’una cerca di domare il populismo con la tecnocrazia, trasportando a livello nazionale la metodologia ipopolitica perfezionata a Bruxelles. Gli Stati Uniti propongono con l’amministrazione Biden un’inedita quanto inaspettata svolta socialdemocratica.
In un caso la soluzione consiste nell’assorbire il conflitto all’interno di una logica tecnopopulista che deprime il protagonismo dei partiti (già debolissimi) e della progettualità politica per estendere quello delle competenze manageriali. Nell’altro caso, la strada per togliere ossigeno al populismo trumpista è stata trovata in un forte intervento dello stato per emancipare dalla povertà e dall’esclusione, senza timore di lanciare progetti di parte. La soluzione europea al populismo è l’esito di una lettura che ne riporta le cause all’essenza stessa della politica, cioè il conflitto tra le parti e la competizione elettorale.
Se la causa della “malattia” populista è collocata nell’iperpoliticismo e nella contrapposizione amico/nemico, la cura verrà a essere la depressione della politica e la riduzione del ruolo dei corpi eletti e delle maggioranze.
L’antipartitismo e l’antipolitica sono la soluzione, al di là di destra e sinistra, e per promuovere misure che siano, dati alla mano, valide per tutti. Estendendo la sfera delle decisioni non-politiche si doma il “noi” populista inglobandolo, rendendolo un “noi” generalista, depoliticizzato: l’interesse di tutti calcolato e gestito da esperti e processi deliberativi imparziali.
In questa soluzione tecnopopulista, la concezione unitaria e monolitica del “popolo” non è smontata o criticata lasciando posto al pluralismo delle rappresentazioni dell’interesse generale, secondo la logica della democrazia dei partiti.Il “popolo” populista è mantenuto ma invece di avere la faccia e il nome di un leader o di un movimento demagogico ha quella di una classe di competenti che traducono la volontà popolare in politiche bipartisan capaci di incorporare direttamente l’interesse di tutti, al di sopra o al di là della supposta piaga del dissenso e dell’opposizione. Il tecnopopulismo è quindi un anti-partitismo decantato degli umori demagogici e tradotto in linguaggio consensualista: propone soluzioni definite in ragione della loro traducibilità in output misurati e monitorati. Mentre la democrazia dei partiti rendeva esplicito il conflitto degli interessi, la democrazia tecnopopulista lo assorbe e lo supera.
L’interesse pubblico non è più ricavato da elezioni competitive. Stabilizzare una rappresentazione oggettiva dell’interesse della società diventa la priorità. E una volta tolto il pungiglione dell’ideologia e della retorica, il “noi” populista viene a essere la base tecnica di una democrazia senza conflitti.
La svolta di Biden
È questo il filo rosso che collega il consensualismo impolitico di Angela Merkel, il dirigismo manageriale di Emmanuel Macron e il consociativismo tecnocratico della Commissione europea.
Del resto, anche l’Italia sembra essersi incamminata sulla strada del tecnopopulismo con la formula che sottende il governo Draghi. La liquidazione del precedente esecutivo, quale che sia il giudizio sulle sue capacità, ha significato la liquidazione della progettualità politica, della volontà di rinascita socio-economica fondata su principi di giustizia sociale, di lotta alle disuguaglianze e di politiche fiscali redistributive. Ha significato la delega del futuro a esperti e tecnici con la missione di governare secondo paradigmi di efficienza e dinamismo, con target generici (giovani e donne) ma senza un’idea di società giusta.
Gli Stati Uniti di Biden indicano un’altra possibile via d’uscita dal populismo. Colui che doveva essere il grande pacificatore centrista dell’era post-Trump ha optato per una scelta più coraggiosa e per molti inaspettata: svolta a sinistra, attraverso un grande piano di rilancio dell’economia su base socialdemocratica.
A differenza dei due piani di investimenti pubblici messi in atto dall’amministrazione Trump, quello appena approvato dal nuovo presidente americano ha una forte componente redistributiva verso il basso. Oltre a un trasferimento diretto di contanti alle classi meno agiate, si stima che il credito fiscale offerto alle famiglie con bambini possa arrivare, da solo, a ridurre la povertà infantile del 50 per cento. Mentre gli aiuti all’impiego di base dovrebbero riportare la disoccupazione ai livelli pre-pandemia già dall’anno prossimo.
E questo è solo l’inizio. All’interno dell’amministrazione Biden si discute già di un ulteriore piano di investimenti pubblici dell’entità di duemila miliardi di dollari, volto alla conversione verde dell’economia e al rinnovamento delle principali infrastrutture energetiche e commerciali del paese.
A confronto, il Recovery plan approvato dall’Unione europea nel luglio dell’anno scorso (che rimane l’unico fino a questo punto, mentre gli Stati Uniti sono già al terzo) si aggira intorno ai 750 miliardi, nonostante il Pil complessivo degli stati membri dell’Ue sia di poco inferiore a quello degli Stati Uniti.
Per finanziare queste spese, l’amministrazione Biden ha proposto un impulso verso la progressività fiscale, alzando le tasse sulle multinazionali (le corporations) e sui cittadini più abbienti (cioè quelli che guadagnano più di quattrocentomila dollari l’anno), cosa che nessuna amministrazione americana aveva mai osato proporre dai tempi di Ronald Reagan. E anche rispetto ai diritti dei lavoratori, Biden si è dimostrato più progressista del previsto, prendendo esplicitamente posizione a favore dei sindacati nel conflitto in corso con Amazon in Alabama.
Prese di posizione di questo tipo sembravano impensabili nel mainstream del Partito democratico anche solo qualche mese fa. Ma gli eventi del 6 gennaio scorso, con l’assalto dei trumpisti al Campidoglio, sono stati un campanello d’allarme. Perfino i centristi come Biden si sono resi conto che la rivolta populista cavalcata da Trump correva il rischio di minare le fondamenta del sistema democratico.
La soluzione proposta è stata opposta a quella praticata in Europa: invece di sedare i conflitti con manovre di ricomposizione delle élite si è deciso di dare una risposta concreta alle domande di cambiamento provenienti dal basso, senza timore di prendere parte e, quindi, di incontrare opposizione.
Contro chi si aspettava che Biden avrebbe cercato di riesumare il tradizionale approccio bipartisan dell’establishment americano, il nuovo presidente ha scelto di assecondare l’ala più radicale del suo partito, che da tempo proponeva massicce politiche di intervento statale e redistribuzione sociale. Ha quindi scommesso su una chiara svolta socialdemocratica, relegando anche i (pochi) repubblicani moderati all’opposizione.
Sarebbe un errore pensare che questo implichi una capitolazione al “populismo di sinistra”, poiché c’è una grossa differenza tra populismo e socialdemocrazia. Il primo tende a negare la legittimità dei conflitti sociali, riassorbendoli all’interno di una concezione monolitica e interclassista della volontà popolare.
La seconda si concepisce esplicitamente come progetto di parte, destinato a una porzione della società (quella che più subisce il peso delle disuguaglianze economiche) e ispirato a valori democratici specifici, che stimolano un’opposizione sui contenuti.
La lezione che ci offre l’America di Biden è quindi che una svolta socialdemocratica può essere una via d’uscita dal populismo altrettanto se non addirittura più efficace rispetto alla depoliticizzazione tecnocratica. Il motivo è che la strategia della Casa Bianca tende a lenire la contrapposizione verticale tra i “pochi” e i “molti” di cui si nutre il populismo, sostituendola con un conflitto orizzontale tra destra e sinistra, all’interno del quale ritorna di attualità il confronto tra visioni alternative di futuro e su politiche di giustizia sociale.
Ovviamente, ci sono condizioni specifiche che hanno permesso questa svolta socialdemocratica negli Stati Uniti. Ma rimane comunque paradossale che un paese in cui la sinistra socialista è storicamente stata molto più debole che in Europa (e anzi demonizzata) sia ora all’avanguardia, e capace di rilanciare la democrazia dei partiti.
È troppo sperare che i presunti partiti nostrani di centro-sinistra si ispirino a questo modello, invece di insistere sull’attuale connubio tra populismo e tecnocrazia?
Carlo Invernizzi Accetti è professore di Teoria politica alla City College of New York. È co-autore con Christopher Bickerton di Technopopulism: The New Logic of Democratic Politics (Oxford University Press).
Nadia Urbinati è professoressa di Teoria politica alla Columbia University di New York.
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