- Se le banche perdono il senso sociale e la loro fragilità intrinseca (crediti a lungo termine, debiti a breve) diventa ingestibile, gli argomenti per aiutarle diventano più deboli. Aumentare i requisiti patrimoniali non basta.
- La crisi di fiducia nelle banche non riguarda tanto dettagli del loro conto economico, ma la loro stessa natura.
- E non sarà un problema facile da risolvere in modo indolore.
Nel 2022 il premio Nobel per l’economia è andato a esperti di un problema che pareva risolto da tempo: le crisi bancarie.
Douglas Diamond e Philip Dyvbig, negli anni Ottanta, hanno spiegato a cosa servono le banche e perché hanno una utilità sociale.
Ben Bernanke da accademico ha dimostrato perché durante la Grande depressione era stato un errore abbandonare le banche al fallimento, poi da presidente della Federal Reserve ha messo in pratica le sue analisi e ha tenuto insieme il sistema finanziario dopo la crisi del 2008.
In questi giorni confusi, quel premio Nobel sembra preveggente o iettatorio.
Diamond e Dyvbig hanno dimostrato che le banche servono perché consentono di diversificare il rischio e controllano il debitore in modo efficace.
I depositanti mettono sul conto i loro soldi, ritirabili in qualunque momento, la banca li presta a lungo termine a imprenditori o famiglie, lucra sul differenziale dei tassi (più alti a lungo, più bassi a breve) e controlla in modo efficace l’uso delle risorse, cosa che milioni di depositanti non potrebbero fare.
Nel mondo di ieri, però, nessuno pensava a spostare i propri soldi dal conto, se succedeva perché si spargeva la voce che la banca era gestita male, poteva avvenire la “corsa agli sportelli”.
Oggi nessuno va più allo sportello, basta un clic dalla app del cellulare. E togliere i soldi dal conto per metterli, per esempio, in titoli di stato che rendono il 4-5 per cento a rischio quasi zero non è una scelta dettata dal panico, ma razionale, specie in tempi di alta inflazione.
L’aumento dei tassi di interesse deciso dalle banche centrali riduce il valore dei titoli di stato nei quali le banche hanno investito. Problema loro, si potrebbe dire, visto che tra le funzioni sociali delle banche non c’è quella di agire come investitori sui mercati.
Ma secondo uno studio recente, le banche americane hanno 2.200 miliardi di perdite potenziali sul portafoglio titoli, ci sono 480 potenziali altre Silicon valley bank pronte a fallire se i depositanti decidessero di spostare altrove i loro soldi (cosa che sta succedendo, dalle piccole banche alle grandi).
Bernanke ci insegna che se queste banche venissero abbandonate, la conseguente stretta creditizia sarebbe tale da innescare una recessione profonda, che risolverebbe il problema dell’inflazione ma con un costo sociale enorme.
Se le banche perdono il senso sociale e la loro fragilità intrinseca (crediti a lungo termine, debiti a breve) diventa ingestibile, gli argomenti per aiutarle diventano più deboli. Aumentare i requisiti patrimoniali non basta.
La crisi di fiducia nelle banche non riguarda tanto dettagli del loro conto economico, ma la loro stessa natura. E non sarà un problema facile da risolvere in modo indolore.
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