Merita molta più attenzione e un’analisi più approfondita la riforma costituzionale centrata sull‘elezione diretta del capo del governo. La «madre di tutte le riforme», secondo Giorgia Meloni, è stata approvata dal Senato ed è all’esame della Camera.

Per i suoi sostenitori essa produrrà maggiore stabilità dei governi e quindi migliore qualità delle politiche a sostegno di uno sviluppo solido e inclusivo, senza alterare le garanzie democratiche.

In realtà si può mostrare come sia vero il contrario. Non solo sarebbero ridimensionati i controlli e i bilanciamenti propri della democrazia liberale e dello stato di diritto, ma la presunta stabilità dei governi non garantirebbe migliori possibilità di politiche per uno sviluppo inclusivo.

Il “premierato” si configura infatti come una sorta di via costituzionale al rafforzamento del populismo, che contrasta con le possibilità di uno sviluppo più solido e più equo. Per motivare questo giudizio occorre richiamare alcuni tratti essenziali del populismo e metterli a confronto con la trama della riforma costituzionale.

Dare voce al popolo

Sappiamo che il populismo contemporaneo cresce in stretto legame con il ridursi della capacità della democrazia rappresentativa di mantenere le sue promesse di crescita del benessere, di mobilità sociale, di sicurezza.

Il populismo nelle sue varie forme si pone l’obiettivo di “dare voce al popolo” interpretandone gli interessi complessivi – senza articolazioni e differenze interne – e contrapponendoli a quelli delle élite politiche ed economiche corrotte e inefficienti.

C’è dunque un unilateralismo intrinseco che dà legittimazione piena solo a una leadership eletta direttamente dal popolo. Questa investitura plebiscitaria del capo che deve interpretare e soddisfare i bisogni del popolo – o della nazione come usa sempre più dire – si accompagna dunque all’insofferenza per i controlli e i bilanciamenti della democrazia liberale e dello stato di diritto, ma anche per il pluralismo politico e sociale, per la cooperazione attraverso la negoziazione e il compromesso tipici delle liberal-democrazie. Nei paesi europei in cui il populismo si è affermato al governo – la Polonia, l’Ungheria – queste tendenze sono chiaramente visibili e hanno portato a “democrazie illiberali”.

Legittimazione plebiscitaria

La riforma costituzionale proposta (che si accompagnerà a regole elettorali maggioritarie) sembra essere costruita per dare più forza al populismo attraverso la forte legittimazione plebiscitaria del capo del governo. Si profila così una minacciosa “tirannide della maggioranza”, legata al contemporaneo indebolimento del presidente della Repubblica, del parlamento e della stessa Corte costituzionale (come ha ben mostrato Enzo Cheli sul Corriere della Sera del 6 agosto). Ma quali sono le conseguenze per le possibilità di sviluppo inclusivo che dovrebbero scaturire da una maggiore stabilità dei governi (un vero feticcio dei “riformatori”)? Ne segnalo in particolare due – entrambe legate all’ideologia antipluralista.

Anzitutto, puntare sull’elezione diretta significa accrescere l’importanza delle qualità personali nella scelta del capo, accrescere cioè ulteriormente la già alta personalizzazione a scapito dei partiti come centri di elaborazione e assicurazione di progetti per beni collettivi a medio e lungo termine.

Ciò non incoraggerà il/la leader a prendere decisioni impopolari, cruciali per lo sviluppo inclusivo ma che daranno risultati in un futuro troppo lontano per le sue esigenze personali di consenso (un tema sul quale insiste giustamente Mario Monti nel suo recente libro).

Da qui una spinta alla ricetta del populismo per “rappresentare la nazione” a breve: tassare di meno e spendere di più, privilegiare le politiche distributive, ridurre i diritti sociali ai nativi, il tutto condito di protezionismo nazionalista all’esterno.

In secondo luogo, a causa dell’antipluralismo che caratterizza di fatto la riforma, rischiamo di avere più instabilità, radicalizzazione e conflittualità: Il contrario degli obiettivi dichiarati. Una conseguenza cruciale del rafforzamento del capo sarebbe infatti costituita dalla riduzione di incentivi alla cooperazione efficace, alla responsabilizzazione, al compromesso e all’accordo tra forze politiche e sociali, indispensabili per dare davvero un futuro più solido e più equo al paese. Ma come mostra l’esperienza di paesi che si sono avvicinati di più allo sviluppo inclusivo, questo esito passa invece per la cooperazione e l’accordo.

Proprio quegli obiettivi che la riforma volta a rafforzare i poteri del capo allontana invece di avvicinare. Come se bastasse un demiurgo installato a palazzo Chigi per plasmare le sorti del paese.

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