- Il casi del peruviano Pedro Castillo è solo l’ultimo, anche se il Perù vanta il record di destituzioni.
- In Ecuador, Brasile, Bolivia, Argentina, Paraguay ecc.: salgono i casi di presidenti incarcerati o costretti a fuggire.
- C’è chi crede che si tratti di un rafforzamento della democrazia e chi invece vi vede una degenerazione in cui la giustizia diviene arma politica.
L’assalto al parlamento e alla presidenza brasiliani conferma che fare il presidente in America Latina è diventato un mestiere insicuro e talvolta anche pericoloso. L’ultimo caso è stato quello del presidente Pedro Castillo del Perù, destituito il 7 dicembre in reazione ad un tentativo di governare per decreti senza il parlamento.
Il tentativo è durato non più di 180 ore, terminando nell’ignominia l’avventura politica del “maestro delle Ande”, sindacalista populista e marxista che aveva fatto sperare un intero popolo di campesino e di montanari scesi pacificamente in massa a Lima nelle ore convulse della sua vittoria elettorale nel luglio 2021.
Castillo non è stato l’unico a non aver tenuto in debito conto la resilienza del sistema parlamentare latinoamericano, forgiato dai decenni di fuoco dei golpe militari negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Ha raggiunto in carcere un altro ex presidente che tentò il potere assoluto, Alberto Fujimori, riuscito nel suo intento per otto anni prima di incappare nella giustizia.
La corruzione – vera cancrena del paese andino – ha travolto le carriere di altri quattro capi di Stato peruviani, da Toledo a Kuzcynski, a Ollanta Humala fino al più noto Alan Garcia suicida nel 2019.
Gli altri casi
In questo singolare destino presidenziale sono finiti altri paesi latinoamericani, come accadde al presidente paraguaiano Fernando Lugo che subì l’impeachment nel 2012, votato in sole 48 ore dal Congresso di Asuncion.
Anche l’amatissimo Evo Morales, capo di stato della Bolivia dal 2006 al novembre 2019, è dovuto fuggire dopo aver fallito nel tentativo di ripresentarsi forzando la costituzione. Superare il numero fisso dei mandati è diventato un vero tabù in tutto il subcontinente.
Lo sapeva bene l’argentina Cristina Kirchner che non ci ha nemmeno provato, supportando alle elezioni del 2019 Alberto Fernandez, ex capo di gabinetto sia suo che del marito Nestor. Lei si è presa la carica di vicepresidente che, pur non risparmiandole l’incriminazione, è protetta dall’immunità (non prevista per la presidenza…).
In Brasile sia Dilma Rousseff (destituita nel 2016) che lo stesso Lula sono finiti sotto inchiesta e addirittura in carcere.
In Ecuador Rafael Correa, il presidente del “buen vivir” tra il 2007 e il 2017, ha subito la rivolta del suo (ex) fedele vice Lenin Moreno che si è appoggiato sul parlamento. Correa è stato costretto a fuggire in Belgio, paese di origine della moglie.
Controcorrente il caso del Venezuela, in cui il presidente Nicolas Maduro ha messo fuori gioco il parlamento a lui ostile, ma per farlo ha dovuto rimpiazzarlo con una nuova assemblea costituente. Va detto che il potere a Caracas deve ancora molto all’esercito, dalle cui fila proveniva Hugo Chavez scomparso per malattia nel 2013.
Dopo aver subito per decenni presidenze forti, ora le istituzioni sudamericane hanno imparato a resistere, anche se c’è chi punta il dito contro l’esagerato utilizzo della giustizia come arma politica.
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