- Tre quesiti le primarie di Torino e quelle prossime a Roma e Bologna li pongono. Il primo deriva dal giorno dopo la sfida piemontese. Flop è stata la formula più in uso, conseguenza di un’affluenza assai scarsa.
- Secondo quesito: ma i partiti hanno il diritto di indicare il “proprio” candidato e chiedere su quello una prova di lealtà, nel senso di fedeltà, ai propri iscritti e dirigenti?
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E arriviamo così all’ultimo quesito. Quale confine “politico” debbono rispettare le primarie? Insomma, possono essere le primarie a dirimere nodi che dovrebbero trovare risposta nel confronto tra culture, partiti, movimenti?
Tre quesiti le primarie di Torino e quelle prossime a Roma e Bologna li pongono. Il primo deriva dal giorno dopo la sfida piemontese. Flop è stata la formula più in uso, conseguenza di un’affluenza assai scarsa. Interpretazione diffusa: lo strumento ha smesso di mobilitare cittadini convinti di avere davvero voce in capitolo.
La difesa ha ribattuto sulla calura, il post pandemia e un sistema di voto on line un po’ tanto complicato. Le previsioni per domenica prossima virano comunque all’ottimismo. Sotto le due Torri per la natura di una competizione in apparenza tuttora aperta tra il candidato di (quasi) tutto il Pd e la candidata di (tutta) Italia viva. A Roma perché tra gazebo programmati (190) e candidati in campo (sette per il Campidoglio e una cifra per i quindici municipi) si prevede una risposta incoraggiante. Allora il quesito: dove si ha da fissare l’asticella per ritenere una primaria riuscita e non il fiasco denunciato da alcuni? Risposta (molto semplificata): le primarie riescono quando allargano la partecipazione motivando elettori interni o esterni alle forze politiche che vi concorrono a sentirsi inclusi nella scelta del candidato o della candidata migliore.
Iscritti e votanti
Da questo punto di vista, se guardiamo a Torino c’è un dato che balza agli occhi: per “iscriversi” alla competizione i candidati hanno dovuto reclutare oltre quindicimila firme, nel senso di cittadini che hanno appoggiato questo o quel nome. Il punto è che a votare sono stati in tutto 11.631 torinesi, qualche migliaio in meno delle sottoscrizioni raccolte dai candidati. Che si tratti di un campanello d’allarme è un fatto e spetterà ora al vincitore comprendere che la campagna vera avrà bisogno di colmare il gap con grande umiltà e voglia di dar voce a una città rimasta distante da un rito collettivo dove, con ogni evidenza, il “rito” ha prevalso sul “collettivo”.
Secondo quesito: ma i partiti hanno il diritto di indicare il “proprio” candidato e chiedere su quello una prova di lealtà, nel senso di fedeltà, ai propri iscritti e dirigenti? Questione sollevata in particolare a Bologna dove un certo numero di esponenti del Pd ha manifestato la preferenza per la candidata indicata da Italia viva. Anche in questo caso converrà usare la logica.
Trovo ragionevole, persino doveroso, che una forza politica elabori e trasmetta la sua convinzione su chi può meglio interpretare il buon governo di una comunità. A meno, s’intende, di non ridurre la funzione dei partiti a notai di tendenze e orientamenti estranei a valori e priorità che l’agire politico è chiamato a esprimere. Detto ciò, nell’istituto delle primarie, se intese come una competizione regolata per la scelta di una candidatura “dal basso”, va contemplata la libertà di giudizio di ogni singolo cittadino, sia egli un elettore senza appartenenza o un militante o dirigente di una delle forze che concorrono alla coalizione. In sintesi: misero quel gruppo dirigente incapace di indicare una scelta motivandone le ragioni, più misero ancora il gruppo dirigente che dovesse tradurre quel diritto legittimo in una coazione dei propri aderenti.
E arriviamo così all’ultimo quesito. Quale confine “politico” debbono rispettare le primarie? Per chiarezza: pare sensato che la politica fissi il perimetro di una alleanza e dentro quella selezioni la candidatura migliore. Fin qui non ci piove.
Ma cosa accade quando una forza politica o un movimento che della coalizione non fanno parte offrono lo stesso una indicazione di voto per questo o quel nome e fanno dipendere la loro successiva adesione al campo dall’esito dei gazebo? Insomma, possono essere le primarie a dirimere nodi che dovrebbero trovare risposta nel confronto tra culture, partiti, movimenti?
Il tema mi pare di qualche rilievo fosse solo perché da Roma all’Emilia sembra aver parecchio a che vedere con dinamiche destinate a segnare la sfida in quelle due città. La risposta in questo caso sembra meno scontata delle altre, ma sarà bene che, una volta quietate le acque, sul capitolo della partecipazione e del ruolo delle culture politiche si torni seriamente a riflettere.
Anche per evitare che alle prossime primarie, magari quelle per la guida del paese, si affidi non solamente la scelta di un nome, ma il compito di ridisegnare il nostro sistema politico perché quello sì sarebbe un inedito. E a dirla tutta non se ne sente la necessità.
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