- Le primarie del Pd sono un passaggio necessario per dimostrare che il partito ha ancora una sua vitalità e sono anche, giova ricordarlo, uno dei pochissimi momenti di partecipazione democratica.
- Chiunque vinca le primarie, si troverà in mano un partito senza idee e quasi senza elettori, con una eredità di radicamento territoriale sempre più fragile.
- L’unica speranza di riuscirci è di coinvolgere quello che resta del popolo del Pd, invece che affidare i nuovi assetti soltanto ai soliti dirigenti specializzati in sconfitte.
Le primarie del Pd sono un passaggio necessario per dimostrare che il partito ha ancora una sua vitalità e sono anche uno dei pochissimi momenti di partecipazione democratica.
Con tutti i suoi difetti, almeno il Pd lascia scegliere il suo vertice ai suoi iscritti ed elettori. Praticamente tutti gli altri partiti procedono senza congressi, per acclamazione o con procedure opache. Molti si staranno chiedendo: Stefano Bonaccini o Elly Schlein?
Per scegliere una risposta bisogna aver chiaro il quadro. Dopo la sconfitta del 25 settembre, il segretario uscente Enrico Letta ha annunciato un congresso e un processo costituente.
Due percorsi difficili da svolgere assieme. Perché il congresso stabilisce chi comanda, il processo costituente definisce su cosa comanda.
Il risultato di questa mossa affrettata, sull’onda della delusione per la sconfitta elettorale, lo abbiamo visto.
Da cinque mesi l’opposizione al governo delle destre è acefala, i candidati alla segreteria si sono scapicollati a elaborare mozioni poco pensate mentre una schiera di saggi dibatteva (non si sa a che pro) su manifesto dei valori, neoliberismo e altre astrattezze.
Il processo avviato da Letta – e dal suo gruppo dirigente – poteva perfino portare al risultato paradossale di scegliere un segretario che non condivideva il manifesto del partito, visto che entrambi erano fluidi e in transizione.
Quindi Bonaccini e Schlein sono entrati in campo non perché davvero incarnazioni di due idee diverse di partito, o di due modi di interpretare la stessa idea di partito, ma come punti di riferimento di gruppi dirigenti in cerca di un nuovo assetto dopo l’ennesimo trauma. Il dibattito sul senso del Pd è stato congelato dalla competizione.
Bonaccini è l’ex comunista, transitato per il renzismo, che ha ceduto alla tentazione di inseguire la Lega sulla via dell’autonomia differenziata e che ora, pentito di entrambe le derive, si propone come quello capace di tenere insieme ciò che resta del Pd e ricucire tra le varie componenti (intese come filiere di dirigenti locali e nazionali).
Promette la buona amministrazione, anche se nessuno sa bene come potrà garantirla, visto che il doppio incarico di presidente dell’Emilia-Romagna e di segretario è ad alto rischio delusione e frustrazione.
Elly Schlein è l’ex contestatrice, erede della spinta delle Sardine ma anche dell’idea che fu prodiana di un centrosinistra allargato e non guidato da figure di partito tradizionali.
Sulla sua esperienza di governo (vicepresidente di Bonaccini per due anni) non si trovano testimonianze significative, è diventata la sfidante del predestinato perché dietro di lei si sono posizionati vari capi corrente del Pd: la sinistra di Goffredo Bettini, Andrea Orlando e Nicola Zingaretti, come l’eterno democristiano Dario Franceschini.
Dovesse vincere, Bonaccini avrebbe poi subito l’onere di trattare con ciascuno di loro l’appoggio nell’assemblea e nei gruppi parlamentari, non certo con l’inesperta Schlein destinata a qualche incarico visibile ma innocuo, tipo la presidenza del partito.
Bonaccini promette un pragmatismo amministrativo che – su questo ha ragione Schlein – è un metodo, ma non una linea politica, anche se la promessa di affidare il partito a sindaci capaci (e vincenti) invece che ai professionisti del sottopotere romano sarebbe una discontinuità rilevante.
Schlein, da parte sua, cerca di fondere la tradizione di una sinistra nostalgica sempre delusa dai compromessi e dalle evoluzioni con altre delusioni più contemporanee, quelle dei giovani che chiedono al Pd di rappresentare battaglie su diritti e ambiente poco sentite – in modo trasversale tra i partiti – dagli elettori più anziani e fuori dalle grandi città.
Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, aveva fatto il tentativo di portare nel processo costituente le questioni ambientaliste, non come orpello ma come parte fondante della nuova identità del Pd.
Il processo costituente poi non c’è stato e la sinistra del partito ha preferito appoggiare Schlein, così Ricci si è spostato su Bonaccini che considera più affidabile e inclusivo.
Ma Ricci ha ragione quando, nell’evento di Scenari organizzato da Domani a Pesaro, dice che «il processo costituente del Pd deve ricominciare il giorno dopo le primarie».
Perché entro le europee del 2024 il Pd deve trovare un messaggio forte e una identità comprensibile da contrapporre alla destra di Giorgia Meloni.
Non può aspettarsi di incassare in automatico il dividendo che deriva dallo stare all’opposizione: altri partiti, vecchi, nuovi o futuri potrebbero ottenerlo al posto del sempre meno entusiasmante Partito democratico.
Chiunque vinca le primarie, si troverà in mano un partito con poche idee e ancor meno elettori, con una eredità di radicamento territoriale sempre più fragile, ormai privo della presa sul potere ministeriale e tecnocratico che ha avuto nell’ultimo decennio.
L’unica speranza di riuscirci è di coinvolgere quello che resta del popolo del Pd, invece che affidare i nuovi assetti soltanto ai soliti dirigenti specializzati in sconfitte.
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