- Nell’ultima udienza del processo Cucchi ter sui depistaggi, è stato il turno del generale Tullio Del Sette. Dopo è stato sentito lo psichiatra della famiglia di Stefano, Marco Cannavicci.
- Del Sette ha confermato che sapeva delle false annotazioni dei piantoni Colicchio e Di Sano sulle condizioni fisiche dell’arrestato. E che tutti i militari coinvolti avrebbero dovuto essere sentiti uno per uno, non collegialmente.
- Ma quando si passa allo spinoso tema medico legale sulla causa di morte di Stefano il sapere del comandante generale si arresta. Mentre la famiglia, secondo Cannavicci, rimane vittima di un irrisolvibile «lutto complicato».
Nell’ultima udienza del processo Cucchi ter, quello dei depistaggi, martedì 15 dicembre era il turno del generale Tullio Del Sette, già comandante generale dell’Arma dei Carabinieri dal 16 gennaio 2015 al 16 gennaio 2018. Subito dopo di lui è stato sentito lo psichiatra della famiglia Cucchi, Marco Cannavicci. Due facce della stessa medaglia. Non al valore, ma al dolore inflitto con le profonde ferite inferte, da un lato al prestigio e alla credibilità di un’istituzione fondamentale per il nostro Paese, dall’altro alla vita e alla salute dell’intera famiglia Cucchi, sopravvissuta, devastata, alla sanguinosa perdita del loro caro Stefano. Prima l’uno e poi l’altro, ma non certo per ordine di intensità o importanza.
Del Sette è sfilato ultimo di una parata di generali e colonnelli che si sono succeduti sul banco dei testimoni non esattamente fiera o qualificante il loro ruolo. Direi il panorama desolante e desolato dei non ricordo, delle note sottoscritte senza previa lettura, redatte non si sa bene da chi. Il tutto tra le incalzanti contestazioni del pubblico ministero e i richiami e inviti a ricordare del giudice. Per Del Sette, tuttavia, non è stato cosi. Dalla sua va detto, infatti, che il comandante generale non rimase inerte a fronte dello scandalo che travolse l’Arma con la pubblicazione sulla stampa della richiesta di incidente probatorio formulata dalla Procura di Roma con la quale si puntava, per la prima volta, il dito contro tre militari come autori del violento pestaggio che aveva poi portato a morte Stefano Cucchi. Non gli agenti della penitenziaria che erano stati processati al posto loro.
Il comandante, il 12 dicembre 2015, chiede formalmente conto alla scala gerarchica che viene invitata a fornire «urgenti e approfondite notizie, riferite anche alle verifiche a suo tempo effettuate». Perché, insomma, si è arrivati a questo punto solo dopo tanti anni? Impossibile non pensare alla famosa riunione «degli alcolisti anonimi» convocata dall’allora comandante provinciale Tomasone.
L’inchiesta interna è rapida. Il 26 febbraio 2016 il generale Del Sette verga una nota con la quale si comunicano le conclusioni che non danno adito a dubbi o incertezze. La scala gerarchica viene rimproverata per l’inefficienza e la superficialità con le quali vennero condotte «le verifiche» interne. Del Sette lo ha confermato in udienza a chiare lettere. Si era accorto delle false annotazioni dei piantoni Colicchio e Di Sano sulle condizioni fisiche dell’arrestato in custodia durante la notte a Tor Sapienza. E poi tutti i militari coinvolti in quel fermo avrebbero dovuto essere sentiti uno per uno e non collegialmente.
Quando si passa, tuttavia, allo spinoso tema medico legale sulla causa di morte di Stefano Cucchi il sapere del comandante generale si arresta. Insomma, come facevano a sapere i generali Tomasone e Casarsa che Stefano avesse «importanti patologie renali ed apatiche» ( cosa peraltro falsa) e che la frattura di l3 era pregressa e quindi non riconducibile al suo arresto? Come facevano a metterlo nero su bianco il 30 ottobre quando ancora l’autopsia doveva essere eseguita? Chi erano gli «gli specialisti» che venivano da loro citati?
Di tutto ciò Tullio Del Sette non sa nulla. L’Arma non aveva incaricato nessuno specialista. Il buio torna a farsi fitto. Comunque una cosa è certa. Della questione Cucchi, Del Sette dichiara di non averne parlato né col suo predecessore Gallitelli, né col suo successore Nistri. Una patata bollente lasciata lì, nel silenzio di un risiko in cui la terra da conquistare era la sete di verità e giustizia dei Cucchi.
Il dottor Cannavicci parla di loro come vittime di un irrisolvibile «lutto complicato» che ha travolto le loro vite e relazioni famigliari. «Disturbo depressivo grave di grado marcato». «Quando un essere umano subisce una ferita - aggiunge lo psichiatra - non vuole che nessuno la tocchi. La vuole lasciare così com’è nascosta e protetta fino a che non guarisce. Per loro non è stato cosi». Condannati all’ergastolo giudiziario per i depistaggi perpetrati dalla scala gerarchica, aggiungo io.
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