- La notizia secca è che Autostrade per l’Italia (Aspi) e la sua società controllata per l’ingegneria Spea hanno chiesto al tribunale di Genova di essere escluse come responsabili civili del processo per il crollo del ponte Morandi che sta muovendo i primi passi.
- La gravità della vicenda risiede dunque in due questioni fondamentali.
- La prima è che la giustizia di fronte a eventi di queste dimensioni semplicemente non funziona. La seconda è che a rendere assurdo il tutto è intervenuta la geniale idea del governo Conte, portata a compimento dal governo Draghi, di nazionalizzare la società responsabile del crollo, cosicché adesso è lo stato a doversi assumere le responsabilità che erano della holding Atlantia e in ultima istanza di casa Benetton.
La notizia secca è che Autostrade per l’Italia (Aspi) e la sua società controllata per l’ingegneria Spea hanno chiesto al tribunale di Genova di essere escluse come responsabili civili del processo per il crollo del ponte Morandi che sta muovendo i primi passi. Cioè di non essere chiamate a pagare i danni in solido con gli imputati eventualmente condannati.
Gli avvocati di Aspi (che faceva capo alla famiglia Benetton il 14 agosto del 2018, quando nel crollo morirono 43 persone, e adesso è invece una società a controllo statale) si appellano a un cavillo riguardante il cosiddetto incidente probatorio effettuato durante l’istruttoria.
Ma questa è materia super tecnica per avvocati. Conta invece che il pubblico ministero Massimo Terrile si è detto favorevole alla richiesta di Aspi e Spea perché l’unica cosa che conta per la procura è semplificare un processo di proporzioni talmente mostruose da andare dritto verso la prescrizione per tutti gli imputati. La gravità della vicenda risiede dunque in due questioni fondamentali.
La prima è che la giustizia di fronte a eventi di queste dimensioni semplicemente non funziona. La seconda è che a rendere assurdo il tutto è intervenuta la geniale idea del governo Conte, portata a compimento dal governo Draghi, di nazionalizzare la società responsabile del crollo, cosicché adesso è lo stato a doversi assumere le responsabilità che erano della holding Atlantia e in ultima istanza di casa Benetton. E se qualcuno volesse sostenere che in punta di diritto non è proprio così (in punta di diritto niente è mai niente) vada a spiegarlo alle famiglie delle 43 vittime suonando ai rispettivi 43 campanelli.
Sul primo punto val la pena ricordare il precedente del Vajont. Il 9 ottobre 1963 l’esondazione del lago artificiale formato dalla diga costruita dalla Montedison e subito prima del disastro passata all’Enel con la nazionalizzazione elettrica, travolse il paese di Longarone, in provincia di Belluno, provocando oltre 2mila morti. Alla fine i danni li hanno pagati in parti uguali la Montedison, l’Enel e lo stato.
Però, trattandosi di materia giuridicamente complessa, hanno pagato dopo quasi 40 anni. Né durante quei decenni né nei vent’anni successivi i promotori perenni di riforme della giustizia, molto attenti a preservare il garantismo per i colletti bianchi, hanno affrontato il tema dei maxi processi che non portano giustizia e danno benefici sostanziali solo alle carriere dei magistrati e ai conti correnti degli avvocati. Infatti a Genova ci risiamo.
Il pm Terrile ha detto in udienza parole agghiaccianti: «Un processo con 1.228 testimoni che porterebbe a un potenziale di 155mila tra esami e controesami è un processo che non si può fare e non avrà mai fine. La lista testi della procura conta 177 persone, quelle dei 59 imputati oltre 300 e quelle delle parti civili oltre 600. Con questi numeri il processo non avrà fine diversa da quella dell’estinzione dei reati».
Per ascoltare oltre 1.200 persone, con deposizioni a ritmo di rap, e udienze ravvicinate, ci vorrebbero almeno due anni, salvo poi capire i giudici come farebbero a districarsi tra 1.200 indicazioni di dettaglio spesso contrastanti. Terrile chiede alla corte di escludere buona parte delle 600 persone che si sono costituite parte civile, fermo restando che potranno sempre chiedere i danni in sede civile. Tra l’altro 41 delle 43 famiglie delle vittime sono state già risarcite proprio da Aspi e sono uscite dal processo. A chiedere giustizia e danni ci sono quelli dei danni collaterali, chi ha perso la casa in Valpolcevera, chi ha visto fallire la sua attività commerciale eccetera.
Un disastro del genere non si può risolvere nelle aule di giustizia. Il ponte è crollato per responsabilità evidente e diretta della società Aspi, a meno che non si riesca a dimostrare che qualcuno dei 59 imputati abbia messo una carica di tritolo sotto il pilone che ha ceduto.
Aspi è talmente piena di soldi che ha appena pagato ai nuovi azionisti (la statale Cassa depositi e prestiti e i fondi Blackstone e Macquarie) un dividendo di 682 milioni. Poteva prenderne la metà e distribuirli ai danneggiati senza sottilizzare troppo, senza dire a quel signore della Valpolcevera che la crepa nel suo appartamento non è poi così grossa.
Solo che adesso Aspi è dello stato, e chi la controlla ha paura di pagare generosamente con i soldi di tutti i danni fatti dai Benetton. Già, potevano pensarci prima. E invece adesso devono battagliare all’ultimo euro, e per anni, con quelli che gli è caduto il ponte addosso per non fare la figura di quelli che generosamente pagano con i soldi di tutti il conto lasciato dai Benetton.
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