- Sia sull’accentuazione dei conflitti sociali sia sulla torsione autoritaria delle forme della democrazia non siamo certo messi meglio di Francia e Israele. Eppure di fronte a tutto ciò il nostro immobilismo è plateale tanto quanto la loro mobilitazione.
- Dunque perché pur essendo potenzialmente nelle stesse condizioni di conflitto sociale e democratico non riusciamo non dico a organizzare ma addirittura a immaginare delle forme imponenti di protesta?
- Bisogna impegnarsi per ripristinare un rapporto di fiducia tra società e politica e per riannodare il filo perduto tra processi di istituzionalizzazione e forme concrete di conflitto.
Sono molto preoccupato per il mio stato di salute. In questi giorni, di fronte a proteste così efficaci come quelle in Francia e in Israele, sento che nessuna terapia può limitare l’esplosione della mia depressione politica. E temo non sia un fatto solo mio. Osservando da qui, siamo in molti a non capire come tutto ciò sia possibile altrove ma non possa neanche immaginarsi da noi.
Le ragioni condivise
Tanto più che, a ben guardare, le cause politiche delle proteste dispensano elementi di analogia con la nostra situazione. In Francia il fuoco è attizzato dalla “questione sociale” che non solo riprende campo ma descrive l’ostinata resistenza di una certa tradizione politica postmoderna – Macron è postmoderno tanto quanto i populisti a cui vorrebbe opporsi, come le sue brutte copie italiane – ad accorgersi che una società in cui il prezzo delle diseguaglianze è tutto sulle spalle di coloro che ne subiscono gli effetti è ormai semplicemente insostenibile.
Ma questa crisi sociale è il quadro d’insieme in cui l’Italia versa da quando anche da noi si è cominciato col toccare le pensioni in forma iniqua e si è poi proseguito togliendo diritti ai lavoratori. Non ditemi dunque che la mia depressione politica non ha delle buone ragioni: perché a parità di crisi sociale lì si fanno le barricate mentre qui si vota Meloni?
Ma la faccenda si aggrava se pensiamo alla protesta in Israele. Paese diversissimo da noi ma che scende in piazza per difendere i meccanismi elementari delle democrazie liberali. Con un riflesso protettivo nei confronti delle forme stesse della democrazia che è, in un certo modo, analogo alla rabbia che Macron ha provocato scavalcando l’Assemblea nazionale (autogol pazzesco: figlio del narcisismo dei nuovi leader che tendono a identificare la democrazia con l’egocrazia).
Ecco: noi vogliamo farci mancare anche questo? Direi proprio di no: dal momento che siamo di fronte a delle riforme – a partire dall’autonomia differenziata fino al presidenzialismo – che modificheranno in senso diseguale e autoritario proprio quella forma della democrazia per cui in Israele persino i militari scendono in piazza.
Sia sull’accentuazione dei conflitti sociali sia sulla torsione autoritaria delle forme della democrazia non siamo certo messi meglio di Francia e Israele. Eppure di fronte a tutto ciò il nostro immobilismo è plateale tanto quanto la loro mobilitazione.
L’Italia immobile
Non vedo molte soluzioni: o ci rassegniamo ciascuno alla propria depressione oppure troviamo il modo di capire perché ciò che avviene da altre parti non accade neanche lontanamente da queste. Ma dobbiamo forse evitare alcuni pregiudizi. In questi giorni ho letto tante diagnosi che spiegherebbero questa “anomalia italiana”.
Alcuni – certamente i più colti – hanno buon gioco nel ricordare che il senso di appartenenza allo stato che anima Francia e Israele – anche se per motivi ovviamente diversissimi tra loro – sia incomparabile con quel senso piuttosto annacquato che appartiene alla storia italiana.
C’è poi chi sostiene che la responsabilità della nostra incapacità di attivarci sia legata alla sfiducia nei confronti della politica. Siamo così disperati da esserci rassegnati al fatto che se anche qualcuno urla non ci sarà nessuno ad ascoltare: non c’è opposizione perché non c’è politica.
Per altri invece la responsabilità è della implosione della società civile, incapace dopo la grande stagione antiberlusconiana di mettersi insieme e di trovare sigle – a partire da quelle sindacali - con una reputazione e un carisma in grado di renderle unitive e non divisive: non c’è opposizione perché non c’è più società.
Tutte queste ipotesi hanno a mio avviso il pregio di essere vere, ma corrono il rischio di essere parziali. Se dovessi dire la mia a proposito di questa domanda così urgente - perché pur essendo potenzialmente nelle stesse condizioni di conflitto sociale e democratico non riusciamo non dico a organizzare ma addirittura a immaginare delle forme imponenti di protesta? – darei una duplice risposta.
Politica e società
La prima è che abbiamo smesso di credere che tra politica e società vi sia una virtuosa contiguità, come dovrebbe avvenire nelle democrazie compiute. Non crediamo più che lo spazio del potere sia davvero contendibile o che si possa liberare da coloro che lo occupano, restando potenzialmente vuoto.
Se la politica non è un luogo contendibile da tutti, sarà inutile per tutti scendere in piazza, mobilitarsi, persino votare in fondo. Ho sempre ammirato che in altri paesi – a partire dai nostri vicini francesi – la società sembra star sempre avanti ai politici e proprio per questo essere in grado di tenerli sulle spine. Ma ormai non è più questione di un ritardo o di un avanzamento. Non è che la società in Italia è più indietro dei suoi politici.
Semplicemente si è consumato come un silenzioso divorzio e ora società e politica vivono da separati in casa (una casa piuttosto grande, coincidendo con un’intera nazione).
Istituzione e conflitto
La seconda è una conseguenza diretta di questa alleanza interrotta tra società e politica. Si potrebbe definire la reciproca frattura tra l’istituzione e il conflitto. Come se dessimo per scontato ormai che tutto ciò che ha diritto a situarsi nel luogo delle istituzioni possa farlo solo a condizione di avere espulso da sé il conflitto. Come se avessimo voluto dimenticare che in una democrazia sono molto rare le forme di istituzionalizzazione che non siano l’effetto di azioni conflittuali.
Ma questa frattura si può diagnosticare anche dal punto di vista delle principali esperienze di conflitto. A un certo punto – questo punto preciso risale probabilmente al trauma di Genova 2001 – ci siamo convinti che una delle condizioni che assicurasse circa la buona fede del conflitto fosse proprio il suo risoluto rifiuto di ogni mediazione con le istituzioni o con la pretesa dell’istituzionalizzazione.
Che il buon conflitto dovesse per essere tale manifestarsi come destituente, non puntando a modificare gli equilibri istituzionali ma limitandosi a disprezzarli, come se da essi non dipendessero le nostre vite singolari e concrete.
Ecco, se voglio davvero far qualcosa contro la mia depressione politica, credo sia necessario impegnarsi per ripristinare un rapporto di fiducia tra società e politica e per riannodare il filo perduto tra processi di istituzionalizzazione e forme concrete di conflitto. Qualcuno mi accuserà di puntare troppo in alto e che forse basterebbe fammi segnare uno psicofarmaco dal mio dottore. Può darsi che abbia ragione, in effetti.
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