Nella storia di questo secolo è difficile trovare un momento in cui la mentalità e le istituzioni democratiche siano state sottoposte a uno stress test così duro e prolungato. Per rendersene conto basterebbe scattare una foto da un satellite nel momento stesso in cui leggete queste righe. Si distinguerebbero a occhio nudo macrofenomeni come i seguenti: negli USA, elezioni presidenziali delicatissime per l’intero pianeta, candidati un pericoloso furfante con una condanna addosso e una signora che si sta costruendo in questi stessi giorni una reputazione e un profilo; in Francia, elezioni legislative in cui si è dovuta creare una coalizione di sinistra (dall’estrema a quella temperata) parecchio litigiosa per evitare la vittoria del partito di Marine Le Pen; nel Regno Unito, elezioni politiche che hanno restituito il potere ai laburisti, mettendoli però dinanzi al terribile compito di raddrizzare un’economia in declino e di riportare il paese nell’Ue; nel pianeta intero, il riassestarsi, fra terribili scricchiolii, di un nuovo ordine mondiale con il declino degli USA e, sullo sfondo, il combinarsi degli interessi di Cina, Russia, Iran. Senza naturalmente parlare della guerra in Ucraina e in Palestina, del ruolo della Nato, delle simpatie filoputiniane diffuse in molti paesi, dei cyberattacchi che possono destabilizzare processi elettorali e interi sistemi-paese.
In aggiunta ai disastri prodotti da questi eventi, ci sono danni a prima vista meno vistosi, perché colpiscono più in profondità. Colpiscono quella «invenzione innaturale» che ha il nome di democrazia, «il progetto politico più umano e acconcio, malgrado le sue mancanze, che la modernità abbia inventato». Da tempo, infatti, questo progetto dà segni di essere arrivato alla fine del suo ciclo. Le scosse a cui è oggi sottoposto sono amplificate da un quadro storico eccezionalmente avverso.
I superricchi
Indico tre dei fattori di contrasto di più lungo periodo: l’enorme crescita delle disuguaglianze, materializzata dal ceto sopranazionale dei «superricchi», che urta con lo spirito di uguaglianza e di redistribuzione alla base del paradigma democratico; l’immigrazione illegale che da decenni si riversa sull’Europa, mettendo a durissima prova lo spirito di accoglienza e sollecitando oltre misura i sistemi di welfare; lo spropositato potere finanziario e politico delle multinazionali (a partire da GAFA), che prevale sulla sovranità degli Stati, autorizzando la gente a pensare che ormai sia inutile votare, perché a governare non sono i governi, ma il grande capitale.
Le idee che ho messo in fila fin qui sono la sintesi veloce e imprecisa della prima parte del libro che Dominique Schnapper, notissima sociologa e filosofa francese della politica, ha appena dedicato alle «disillusioni della democrazia» (Les désillusions de la démocratie, Gallimard: da tradurre subito). In questo titolo i più esperti avvertiranno l’eco di un’opera di Raymond Aron (1905-1983), Les désillusions du progrès (1969). Non è un caso. Schnapper è infatti figlia del famoso analista liberale, e come lui ha dedicato lavori importanti alla natura e alla tenuta della democrazia. Questo libro, che sta suscitando in Francia vivissimi dibattiti, non discute di ciò che la democrazia è e può fare: il tono è piuttosto quello di chi descrive la fine di un ciclo.
Qualcosa si è rotto nelle democrazie? Che cosa potrà seguire alla disillusione? Secondo Schnapper, un regime così «innaturale» (lei preferisce dire «a-naturale») come questo, che si basa su fragilissime «finzioni vere» (come quelle dell’uguaglianza tra i cittadini e dell’identità tra rappresentanti e rappresentati), non appena queste finzioni sono incrinate, crolla. Un altro contrassegno delle democrazie è l’ideale dell’uguaglianza, quale, in mancanza di rivoluzioni, può essere perseguito solo attraverso la redistribuzione delle ricchezze. Questa, a sua volta, si manifesta soprattutto sotto forma di welfare (in Francia chiamato, con una leggera sfumatura di sospetto, «Stato-provvidenza»), che permette ai meno fortunati di fruire di servizi (scuola, sanità, previdenze, vacanze pagate ecc.) che altrimenti resterebbero inaccessibili.
L’avvento degli «altri»
Visti in questa luce, tutti i regimi democratici, secondo Schnapper, sono in varia misura socialdemocratici, visto che incorporano gli ideali storici della socialdemocrazia, primi tra tutti la redistribuzione delle fortune e il sostegno ai più deboli. Ora, però, «la socialdemocrazia è vittima del suo successo». È vittima infatti dell’impercettibile diffondersi dell’atteggiamento neoliberale (ben descritto, nella sua forma attuale, in The Invisible Doctrine di George Monbiot e Peter Hutchinson, appena uscito nel Regno Unito), che «vede nel peso dello Stato-provvidenza e nell’attaccamento dei singoli a questa protezione l’inizio di una collettivizzazione abusiva: la società sarebbe sotto la minaccia di affondare nell’assistenza generalizzata». Da questo timore (o meglio, da questo spauracchio) deriva in tutt’Europa il contrarsi dell’assistenza sanitaria pubblica a vantaggio di quella privata, la privatizzazione dei servizi, la nascita di «forme particolari di lavoro», come i contratti di formazione, gli impieghi a tempo determinato, il tempo parziale imposto ecc.
Dalla perdita di stabilità e di protezione derivano conseguenze che abbiamo sotto gli occhi anche in Italia, e che Schnapper descrive dettagliatamente, come l’astensionismo elettorale (drammatico in Italia: 49,69% di votanti alle ultime europee), la crescente diffidenza verso i professionisti della politica e tutto ciò che con la politica abbia a che fare (partiti -- costretti quasi ovunque a far sparire dal proprio logo il termine stesso di partito –, parlamenti, sindacati e media). In Francia questa sfiducia è arrivata, come si vide nei disordini dell’estate 2023 (in reazione alla morte del giovane Nahel, ucciso da un agente di polizia mentre si opponeva all'arresto), a colpire perfino «le istituzioni pubbliche deputate al care: pompieri, medici, personale sanitario, insegnanti, operatori sociali».
Le disillusioni che così si stratificano preparano il terreno all’avvento degli «altri», cioè di chiunque prometta di ristabilire il legame tra cittadini e Paese, di ridurre il peso dello Stato, di estromettere gli stranieri e tutti gli sfaccendati fruitori di assistenze e sussidi – insomma i partiti di destra, quale che sia il nome dietro cui si travestono. In questa chiave le analisi di Schnapper, benché riferite soprattutto alla Francia, si adattano perfettamente all’Italia, con la triste differenza che in Italia l’avvento della destra-destra si è realizzato già da qualche anno.
Le prospettive
La seconda parte del libro di Schnapper, guardando al futuro, prospetta le possibili conseguenze (di cui in diversi paesi si scorgono già i primi cenni inquietanti) delle «disillusioni della democrazia». Mentre l’atteggiamento neoliberale lavora per erodere il peso dello Stato, dall’altro lato l’intera modernità democratica occidentale è sottoposta all’accusa di essere fondata sul razzismo e il colonialismo e di vivere in una «situazione coloniale», cioè di permanente discredito e sfruttamento delle minoranze.
Si apre qui il capitolo della rivendicazione della «democrazia estrema», capace di cancellare ogni tipo di discriminazione e recuperare i diritti delle «vittime di discriminazione, per l’indirizzo sessuale non etero-orientato, per la religione, l’età o qualunque forma di disabilità fisica e mentale, inclusa all’obesità». Per questo orizzonte critico, «il riferimento alla vocazione universale della cittadinanza [democratica] non sarebbe altro che una maschera, o una bugia, destinata a far dimenticare gli imperialismi delle democrazie». È facile a questo punto il passaggio – che Schnapper considera uno «sviamento delle società democratiche» – dalla critica delle democrazie al pensiero woke (molto diffuso e attivo in Francia), che rifiuta tutte le distinzioni (tra maschi e femmine, tra umanità e animalità, tra conoscenza e credenza, tra politica e religione, tra pubblico e privato ecc.), proponendosi di conservarne solo una: quella tra dominanti e dominati. Un’idea che, a quanto pare, prende piede anche tra i dominanti più potenti, se si pensa che (come riferisce Schnapper) la Fondazione Bill e Melinda Gates ha recentemente dotato di ricchi fondi un programma statunitense «per smantellare il razzismo nell’insegnamento della matematica».
Secondo Schnapper, la spinta di questi movimenti di democrazia «estrema» rischia «coi suoi eccessi, di snaturare il progetto di emancipazione inerente alla promessa» democratica e di «precipitare il disfacimento delle società democratiche». Le democrazie occidentali, «sempre più isolate sulla scena mondiale», potranno «resistere ai loro demoni interni»?
È questo un timore da conservatori? Oppure da progressisti illuminati? Difficile dirlo. Sta di fatto che parecchie delle rivendicazioni della «democrazia estrema» coincidono con quelle dei dirigenti di Russia e Cina, Turchia e Iran che, «obiettivamente uniti dal comune odio per l’Occidente», non cessano di denunciare «il mito per cui la modernizzazione coincide con l’occidentalizzazione».
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