- La Bce guidata da Christine Lagarde ha alzato i tassi di interesse come previsto, e di mezzo punto percentuale invece che soltanto di 0,25 come qualcuno sperava, ma potrebbe essere l’ultima volta.
- Perché anche se l’inflazione sembra destinata a rimanere “troppo alta per troppo a lungo”, Lagarde e il consiglio dei governatori non prendono più alcun impegno sul futuro a continuare con il rialzo dei tassi e con la stretta monetaria.
- La Bce si dice pronta a intervenire sui mercati in caso di necessità, per preservare «la stabilità dei prezzi e quella finanziaria nell’eurozona». Una rassicurazione che certifica però anche la serietà del problema.
Quando un uomo col fucile incontra un uomo con la pistola, quello con la pistola è un uomo morto, diceva Clint Eastwood. E così quando una crisi bancaria incontra una crisi da inflazione, adesso sappiamo chi vince: la crisi bancaria.
La Bce guidata da Christine Lagarde ha alzato i tassi di interesse come previsto, e di mezzo punto percentuale invece che soltanto di 0,25 come qualcuno sperava, ma potrebbe essere l’ultima volta. Perché anche se l’inflazione sembra destinata a rimanere «troppo alta per troppo a lungo», Lagarde e il consiglio dei governatori non prendono più alcun impegno sul futuro a continuare con il rialzo dei tassi e con la stretta monetaria.
Anzi, Lagarde sottolinea il messaggio contenuto – sia pure in modo sempre un po’ criptico e oracolare – nel comunicato: «l’elevata incertezza» sui mercati, tra il fallimento di Silicon Valley Bank e la crisi di Credit Suisse, rafforza “l’importanza di un approccio alle decisioni sui tassi basate sui dati”. Che vuole dire niente impegni precisi (addio per sempre alla cosiddetta “forward guidance”) e si naviga a vista.
I falchi non volano più
Una sconfitta netta per i governatori dei paesi del nord, come l’austriaco Robert Holzman, che aveva promesso una marcia spedita del tasso di interesse per contenere l’inflazione e per questo aveva ricevuto inedite critiche pubbliche da Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia.
Holzman e i “falchi” anti-inflazione al momento hanno i numeri dalla loro: come ammesso da Lagarde, l’inflazione media nel 2023 è attesa al 5,3 per cento, ben più del doppio di quel 2 per cento che è l’obiettivo della Bce, ma soprattutto i prezzi al netto dell’energia e del cibo (inflazione core) continuano a crescere e hanno giù smentito le previsioni di dicembre, visto che l’attesa è di un aumento del 4,6 per cento nell’anno.
Più l’inflazione dura, più diventa inevitabile che i lavoratori chiedano aumenti dei salari nominali per recuperare potere d’acquisto, che è esattamente quello che sta succedendo, osserva la Bce.
Però questi numeri sono vecchi e non valgono per il futuro, dice Lagarde: non includono tutto quello che è successo dal primo marzo in poi, dunque non si può semplicemente proiettarli in avanti per prevedere la traiettoria dell’economia.
Un messaggio chiaro ai mercati, che Francoforte presenta come dimostrazione di realismo e flessibilità, ma i critici possono interpretare come una ammissione che la Bce è e sarà sempre in ritardo sugli eventi se si basa sui dati per decidere le azioni di politica monetaria ma quei dati arrivano con un inevitabile ritardo che condanna la banca centrale a rimanere sempre “behind the curve”, come si dice in gergo, cioè a inseguire gli eventi invece che a guidarli.
Oltre Credit Suisse
Gli eventi, però, dipendono molto da quello che fanno le banche centrali. Quella svizzera, dopo la chiusura dei mercati di mercoledì, ha accordato una linea di liquidità da 50 miliardi di franchi (54 miliardi di dollari) a Credit Suisse per evitare che la crisi di fiducia nella banca diventasse insolvenza.
Con questi strumenti – liquidità in cambio di titoli in garanzia – la Banca centrale svizzera adempie al ruolo tipico di una banca centrale, cioè agire da prestatore “di ultima istanza”: garantire credito a chi, temporaneamente, non riesce a trovarlo sui mercati per evitare che la mancanza di liquidità diventi insolvenza.
E infatti il titolo di Credit Suisse è rimbalzato del 19 per cento, un po’ tutte le Borse europee hanno rifiatato, al momento la banca svizzera travolta da scandali e cattiva gestione non farà la fine della Silicon Valley Bank.
Ovviamente, nessuno dei problemi che hanno generato sfiducia in Credit Suisse è risolto: i depositi sono passati da 185,9 miliardi di franchi a 135 tra fine 2021 e fine 2022, segno che la fiducia dei correntisti era venuta meno molto prima che venisse rivelata la perdita record da 7,3 miliardi di franchi in un anno e che gli auditor di Pwc dicessero che, nonostante le continue riforme interne e cambi al vertice dopo ogni scandalo, la governance della banca non è in grado di assicurare una gestione che assicuri la correttezza delle procedure contabili.
La Bce si dice pronta a intervenire sui mercati in caso di necessità, per preservare «la stabilità dei prezzi e quella finanziaria nell’eurozona». Una rassicurazione che certifica però anche la serietà del problema, visto che al momento nessuna banca supervisionata dalla Bce è stata coinvolta nell’ondata di tensioni innescata dal caso della Silicon Valley Bank.
Per il momento tra gli investitori sembra prevalere il sollievo per sapere che Francoforte non nega il problema, al punto che Lagarde teorizza che non c’è alcuna incompatibilità tra perseguire la stabilità dei prezzi e quella della finanza.
Una tesi ardita, visto che è facile che un tipo di instabilità generi l’altro, ma le azioni necessarie per stabilizzare i prezzi (politica monetaria restrittiva e tassi più alti) sono quelle che stanno generando instabilità nella finanza perché rendono le condizioni del credito più restrittive e tanti investimenti speculativi a debito iniziano a diventare insostenibili.
Lo stallo americano
Anche negli Stati Uniti tutto sembra congelato. La Federal Reserve di Jay Powell sembra aver arginato il contagio con la promessa di garantire i depositi anche sopra la soglia assicurata di 250.000 dollari, con la promessa che non saranno i contribuenti a pagare ma il sistema bancario.
Questa mossa ha fermato il panico e arginato l’effetto contagio dalla Silicon Valley Bank, dove soltanto una piccola fetta dei depositi era sotta la soglia perché l’istituto era usato soprattutto da start up finanziate da venture capital con milioni sul conto in attesa di investirli.
Ma è troppo presto per celebrare il ritorno della calma, perché la scelta della Fed ha innescato tensioni dall’esito imprevedibile nel settore.
Grandi banche che progettano di investire nella First Republic bank, sempre vacillante sull’orlo del collasso, in un intervento che è forse un salvataggio forse una scommessa sul salvataggio del governo; e poi soldi che fluiscono dalle banche regionali medie, in parte scoperte dalle assicurazioni, verso quelle piccole o grandi.
L’uomo con il fucile – la crisi bancaria – ha incontrato l’uomo con la pistola – la crisi da inflazione – e per ora lo ha intimorito.
Ma non è detto che non si passi presto a un altro classico di Sergio Leone, con cioè il “triello”, con l’aggiunta del terzo pistolero, la recessione, che potrebbe rimanere l’unico in piedi e vitale dopo che gli altri due si sono neutralizzati a vicenda.
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