- I vincoli che la politica le impone non permettono alla Rai di tenere il passo dei cambiamenti che da anni stanno rivoluzionando il settore dei media.
- Così la Rai è rimasta ferma a suo tempo di fronte all’avvento della Tv a pagamento satellitare; poi al passaggio al segnale digitale, che avrebbe dovuto moltiplicare e segmentare l’offerta.
- Quella della Rai è rimasta pressoché immutata coi suoi tre canali tradizionali della prima repubblica; e infine l’arrivo dello streaming e delle piattaforme digitali la vede in posizione marginale.
Le polemiche per le interferenze della politica nella nomina dei direttori dei Tg della Rai sono quantomeno sorprendenti: perché la politica è la quintessenza della Rai. Ai tempi della prima repubblica, Rai1 era democristiana, Rai2 socialista e Rai 3, ribattezzata TeleKabul, comunista. Con l’avvento di Berlusconi, la funzione della Rai è diventata quella di fare da contrappeso a Mediaset.
Anche nell’era dei social, la Rai rimane lo strumento indispensabile per asseverare l’esistenza di tanti politici che senza la visibilità della televisione, semplicemente sparirebbero (politicamente parlando). E questo vale sia a livello nazionale sia locale, come dimostra il sostegno alla sollevazione dei giornalisti per la chiusura dei Tg Regionali notturni; per i politicanti di lungo corso, come per i “quasi nuovi” esponenti del M5s, passati dalla fatwa di Grillo contro la Tv alla corsa alla comparsata.
Le indiscutibili capacità di Carlo Fuortes non c’entrano: il problema è nel manico. Se la politica vuole la Rai al proprio servizio, essendone di fatto l’azionista di riferimento, l’unico obiettivo di gestione possibile è quello di non fare troppe perdite: programmazione e raccolta pubblicitaria cessano di essere un obiettivo aziendale, basta che alla fine, tenuto conto del canone, costi e ricavi più o meno si pareggino.
Una modalità di gestione conservatrice che rafforza le rendite di posizione di chi ci lavora, che, a loro volta, sono un ulteriore ostacolo al cambiamento.
Basta guardare alla semestrale di quest’anno: i ricavi del consolidato Rai (1,36 miliardi) sono quasi identici a quelli di Mfe (ex Mediaset), come simili sono le immobilizzazioni nei diritti e programmi (853 milioni Rai, 940 di Mfe) e il loro tasso di ammortamento; ma i costi del personale e il totale dei costi operativi in Rai assorbono, rispettivamente, il 44 e il 79 per cento dei ricavi, contro l’8 e 30 di Mfe.
Il problema dei soci
L’esperienza di tante società a partecipazione pubblica insegna che non ci può essere efficienza gestionale se nel capitale non ci sono soci interessati agli utili. Questa è la realtà dei fatti. Argomentazioni abusate come l’esigenza del servizio pubblico o la pluralità dell’informazione giustificherebbero il canone, non la mala gestione o l’eccesso di dipendenti.
La soluzione sarebbe facile: scorporare il servizio pubblico (insieme all’eccesso di dipendenti) dalla Tv commerciale, finanziandolo esclusivamente col canone, e dotandolo di un pacchetto adeguato di canali (possibile dopo il passaggio al digitale).
La Tv commerciale con i suoi canali, una volta scorporata, potrebbe poi dare il via a un processo di concentrazione dei media tradizionali, ineludibile se si vuole sperare di superare una crisi ormai irreversibile. Ma senza il traino dell’audience dei programmi commerciali, la Tv del servizio pubblico non la guarderebbe nessuno e per la politica equivarrebbe a un suicidio di massa, ergo impossibile.
I vincoli che la politica le impone non permettono alla Rai di tenere il passo dei cambiamenti che da anni stanno rivoluzionando il settore dei media.
Così la Rai è rimasta ferma a suo tempo di fronte all’avvento della Tv a pagamento satellitare; poi al passaggio al segnale digitale, che avrebbe dovuto moltiplicare e segmentare l’offerta, mentre quella della Rai è rimasta pressoché immutata coi suoi tre canali tradizionali della prima repubblica; e infine l’arrivo dello streaming e delle piattaforme digitali la vede in posizione marginale.
Anche nell’attività tradizionale della raccolta pubblicitaria, un mercato che peraltro ristagna nell’era digitale, la Rai perde colpi con una quota di mercato del 22 per cento nei primi sei mesi, ormai surclassata da Sky, La7 e Discovery che assieme hanno il 25; mentre Mediaset rimane stabile sopra il 50. Così la Rai è un’azienda in declino, in un settore – quello dei media tradizionali – a sua volta in declino.
La lenta agonia
Quanto può durare questa lenta agonia della Rai? Molto a lungo. In genere, fino a quando un indebitamento eccessivo o un capitale insufficiente impongono la ristrutturazione, come avvenuto, per esempio, nei casi di Alitalia e Mps. Ma l’indebitamento finanziario netto della capogruppo Rai S.p.a. (al netto di leasing e crediti/debiti verso le società controllate) di 195 milioni non appare preoccupante, anche perché sull’obbligazione da 300 milioni che costituisce il grosso del debito lordo, paga interessi contenuti grazie all’implicita garanzia dello Stato.
Inoltre, Rai detiene circa il 65 per cento di RaiWay, quotata, in bilancio per 506 milioni: ai prezzi di mercato ci sarebbe una plusvalenza implicita di 380 milioni. Se però cadesse il vincolo del 51 per cento pubblico, Rai potrebbe cedere RaiWay fondendola con EiTowers (gestisce le torri di trasmissione di Mfe) controllata da F2i, un fondo nell’orbita di Cassa depositi e prestiti.
Poiché RaiWay è già quotata, una fusione sarebbe anche un modo rapido per portare in Borsa il nuovo gruppo, permettendo così a Rai e Mfe di liquidare in parte le rispettive quote.
La plusvalenza per Rai sarebbe in questo caso di gran lunga superiore perché ai prezzi attuali di mercato le attività di RaiWay valgono 10,3 volte il margine operativo lordo, quando F2i ha pagato quelle di EiTowers un multiplo di 13,5 volte, e società di torri come InWit e Cellnex quotano a multipli, rispettivamente, di 19 e 17 volte.
I veri debiti problematici di Rai non sono finanziari: le passività per il Tfr, fondo sanitario, previdenza integrativa e fondo indennità ex-giornalisti (qualunque cosa sia) ammonta a 352 milioni; poi ci sono 185 milioni del fondo rischi, di cui 57 per cause del lavoro e oneri maturati per prestazioni di lavoro; altri 246 di debiti correnti nei confronti del personale e degli enti di previdenza; più i 60 netti verso il fisco, fanno in tutto 843 milioni. Ma i debiti verso personale, enti previdenziali e fisco sono scaglionati nel tempo, e non hanno la scadenza inderogabile di un’obbligazione.
C’è poi l’andamento dell’audience che determina gli introiti pubblicitari. Secondo i dati del bilancio Rai, nel primo semestre ci sarebbero stati una media di 25,8 milioni di spettatori in prime time, superiori anche a quelli di 15 anni fa, in apparente controtendenza con quanto succede negli altri paesi.
Va bene che l’interesse per Covid e vaccini avrà aumentato la domanda di Tv anche quest’anno, ma a spanne una media di 25,8 milioni mi lascia perplesso perché significa che il 95 per cento degli italiani sopra i 50 anni e il 45 di quelli con più di 4 anni sarebbero stati in media incollati ogni sera alla Tv.
Perplessità che aumenta quando, sempre secondo i dati Rai, proprio nei tre giorni in cui ha conquistato lo share massimo (Sanremo del primo febbraio, Italia-Svizzera del 16 giugno e un Commissario Montalbano dell’8 marzo) l’audience nazionale sarebbe stato mediamente di 22,8 milioni, inferiore alla media del primo semestre.
Ovvero quando la Rai primeggia, c’è meno gente che guarda la Tv. Può darsi, ma qualcosa non torna. Comunque, fino a che c’è audience, c’è vita per la Rai: visibilità per la politica e pubblicità per coprire i costi.
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