Dopo il successo di Alessandra Todde, qualcosa può e deve cambiare. A destra sono molto più divisi di quanto non vogliano far credere. Dovrebbero cadere per sempre i veti reciproci Conte-Calenda. La segretaria Pd ha coltivato con generosità le alleanze, traendo ispirazione dalla sola esperienza vincente del centrosinistra.
Non so dire quante e quali ripercussioni il voto sardo determinerà, ma che non convenga sottovalutarne i messaggi pare scontato. Alessandra Todde ha guidato al successo una coalizione abbastanza larga da compensare il terzo commensale, Renato Soru, determinato nel condurre in porto una candidatura priva di chance. Con una nota in più. Che è stato anche grazie a lui e alla bizzarra sommatoria di liste a suo sostegno che un certo numero di elettori leghisti ha spedito il suo telegramma a Palazzo Chigi con quel voto disgiunto vissuto dalla premier come sfregio da castigare. E qui la seconda lezione delle urne di domenica.
Dentro la maggioranza si detestano
A destra sono molto più divisi di quanto non vogliano far credere quando salgono in fila indiana sui palchi dei comizi giurandosi granitica amicizia e una eterna fedeltà. La realtà è che tra i vertici di una destra incistata per la prima volta nelle casematte del potere continuano cordialmente a detestarsi. Con una novità rispetto a prima, che dopo la scomparsa di Berlusconi e il harakiri di Salvini al Papeete, il timone è passato (quanto saldamente chissà) nelle mani della forza sino a ieri minoritaria. Il che si può declinare anche così, cestinata la “rivoluzione liberale” di Forza Italia e rottamato il “prima gli italiani” di Pontida, il compito di stabilire gerarchie e formazioni da schierare (leggi, candidature) è transitato nelle mani della componente più estrema per tradizione e costumi. Quella destra che anni addietro l’intelligenza di Gianfranco Fini aveva cercato di normalizzare dentro il nuovo contesto storico e che la vittoria delle ultime politiche ha restituito agli impulsi primari, compresa una nostalgia non più repressa verso il ventennio più buio dell’Italia novecentesca. Questa destra che Giorgia Meloni non solo interpreta, ma incarna ha incassato la prima vera sconfitta dopo sedici mesi di una corsa all’apparenza priva di ostacoli.
È accaduto perché hanno sbagliato candidatura e campagna elettorale? Sicuramente sì, ma non basta a dar conto del tutto. Diciamo che più che forare una gomma hanno ingrippato il motore. Succede. Se pigi sull’acceleratore senza curarti troppo dello stato di salute della vettura il rischio di trovarti a spingere c’è. Palazzo Chigi ha creduto di sedere alla guida di una monoposto da formula 1, con tanto di meccanici (tradotto, gli alleati di maggioranza) disposti a collaborare senza fiatare al pit stop. Peccato che non avevano fatto i conti con la rabbia di quelli, tanto più ingrossata per l’avere ricevuto un dito nell’occhio, quanto era sufficiente a mal disporsi a compiti da spiccia faccende.
Il tutto equivale a una destra in bancarotta? Non scherziamo. Oggi come ieri in Parlamento e fuori sono forti nei numeri e il segnale d’allarme che gli si è acceso in casa li metterà all’erta in vista delle scadenze a venire, a partire dal turno abruzzese tra meno di un mese. Ma esattamente qui entrano in gioco le opposizioni nel senso di non sciupare l’occasione per un cambio di scenografia e sceneggiatura anche su questo palcoscenico. Uniti si vince, o comunque si aumentano le possibilità di riuscirci, divisi no: da ultimo lo ha ripetuto Romano Prodi e con ragioni da vendere.
I veti
Mettiamola così, il successo sardo dovrebbe sotterrare una volta per tutte un paio di frasi. Tipo, «mai col Pd se non rompe con Conte». Oppure la variante speculare, «se c’è Calenda non ci saremo noi». A dire il vero il giorno dopo dal leader di Azione sono arrivate parole di apertura e buon senso. Nella sostanza ha detto, «mai più da soli a un’elezione regionale». Il che dopo l’esperienza della Moratti in Lombardia e di Soru in Sardegna fa ben sperare in una estensione del criterio alla costruzione dell’alternativa necessaria per la guida del governo. Ma tempo al tempo.
Chi, invece, questa cultura e pazienza dell’unità ha coltivato senza doppie o triple velocità è stata la segretaria del Pd ed è giusto riconoscerlo. A fronte di un sostegno convinto ad Alessandra Todde, Elly Schlein avrebbe potuto rivendicare dai 5 Stelle una preventiva reciprocità altrove (della serie, a voi la Sardegna, a noi Piemonte o Basilicata), ma non lo ha fatto mostrando generosità e sguardo lungo che paiono merce sempre più rara nel mercato politico di questi tempi. Il punto è proseguire sul sentiero giusto, magari traendo ispirazione dalla sola esperienza vincente del centrosinistra. Quell’Ulivo che non è mai stato solamente un’addizione di sigle, ma una scelta consapevole che riconosceva in ciascuna delle culture e forze che lo animavano una funzione autonoma e preziosa.
Voglio dire che la forza di quella stagione è stata anche e soprattutto nella convinzione che dell’ambientalismo come del pensiero femminista, della sinistra storica quanto del cattolicesimo democratico e della cultura del diritto e delle libertà individuali, la coalizione e il suo programma avevano un bisogno vitale e qualunque esclusione o veto avrebbe immiserito l’offerta di un governo credibile del paese. Domenica la Sardegna qualcosa di analogo lo ha detto e dimostrato. Non vuol dire che il più è stato fatto. Significa, però, che il peggio è alle spalle e fosse solo per questo un pizzico di maggiore ottimismo non è più un fuor d’opera.
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