L’uccisione di Giulia Cecchettin, le parole della sorella, quelle nobili del padre durante il funerale, e l’oceanica manifestazione di Roma hanno cambiato il senso comune dell’Italia di oggi sul femminicidio. Le responsabilità del patriarcato sono balzate in primo piano. Quello che conta nella soppressione della donna è l’aver detto di no alle pretese del maschio. È lo stesso rifiuto che c’è nello stupro. Molti ricordano Franca Viola, la ragazza siciliana che a metà degli anni Sessanta del secolo scorso, a 18 anni ancora da compiere, fu rapita e stuprata. Rifiutò il matrimonio riparatore e fece condannare chi l’aveva violata. Il suo esempio è entrato nella memoria collettiva.
Prima di lei tante donne, senza che nessuno se ne accorgesse, hanno vissuto la stessa esperienza. Si tratta di molte donne calabresi che ebbero il coraggio di dire un no. Rifiutavano il matrimonio riparatore che a volte era accompagnato anche da una ricompensa in danaro quando gli stupratori erano più d’uno. La ragazza sceglieva a sua discrezione come marito uno degli stupratori e gli altri pagavano in moneta sonante.
Tra l’Ottocento o la prima metà del Novecento era davvero un atto di eroismo rifiutare il matrimonio che era il punto più luminoso per il futuro delle donne e i soldi per queste donne che erano povere. Il matrimonio era la meta cui tendevano tutte le ragazze, nessuna esclusa, povera o ricca che fosse. Ma potevano sposarsi se erano vergini, altrimenti, persa la verginità, la ragazza era svalutata sul mercato matrimoniale, difficile trovare marito. Per questo le denunce di stupro avevano una forza dirompente.
Nella storia di queste ragazze si deve tenere conto del fatto che al processo partecipavano vicine, amiche, conoscenti del paese. E di fronte a molti uomini la ragazza, spesso analfabeta, che non sapeva parlare l’italiano, era costretta a rispondere a domande terribili degli avvocati difensori o del presidente del tribunale che chiedevano quanti centimetri fosse penetrato quell’arnese il cui nome era impronunciabile in pubblico e se avesse provato piacere, se fosse la prima volta che aveva avuto un “congresso carnale”, come fosse vestita al momento del fatto e se conoscesse il suo aggressore per averlo frequentato o magari per averlo incoraggiato.
In queste vicende emergeva la cultura del maschio. A Roccaforte del Greco, Calabria, nel 1901 un giovane di 19 anni che aveva violentata una sua coetanea, spiegò così il suo gesto: «L’uomo fa quel che vuole». Nel 1871 a Cittanova un giovane tentò di stuprare una ragazza. Giustificò il suo comportamento dicendo che essendo follemente innamorato voleva stuprarla per «mettere un argine alle pretese altrui». Era una bella ragazza contesa fra più pretendenti, ma se non fosse stata più vergine le altrui pretese sarebbero cadute e lui sarebbe stato libero di sposarla. La volontà della ragazza non contava. Il no metteva le cose a posto: la donna non era proprietà dell’uomo anche se questo dichiarava di essere innamorato. Si scontravano due concezioni, quella proprietaria dell’uomo e quella della volontà della donna che voleva decidere l’uomo da sposare. Una concezione moderna, inimmaginabile per quei tempi, per una ragazza che viveva in una famiglia rigidamente patriarcale dove al padre si dava del voi, non del tu. Corrado Alvaro ha ricordato che la Calabria «ha in maggior grado il senso della gerarchia, il senso paterno, patriarcale».
È arrivato il momento di chiederci: come si comportavano gli uomini delle donne violate? Qui si scopre una realtà sorprendente e sconosciuta. Il 26 ottobre 1826, nelle campagne di Decollatura, una piccola di 8 anni fu violentata da uno sconosciuto mentre era alla ricerca di un animale affidato alla sua custodia. Ancora bagnata di sangue ritornò a casa dalla madre che fu la prima a constatare lo stupro. Il padre della bambina andò in cerca del responsabile che gli era stato descritto dalla piccola, e lo raggiunse nel luogo da lei indicato. «Nel momento in cui il padre della stuprata vide l’accusato fece chiamare la civica e lo fece arrestare», è scritto in sentenza. Non passò a vie di fatto, non usò violenza, nonostante lo stupro fosse avvenuto da pochissimo tempo e su una bambina; con grande forza d’animo si rivolse alla forza pubblica. Anche il padre di un bambino, stuprato nel 1848 da un “civile” di 24 anni di Torre Ruggiero, presentò «querela con istanza di punizione lo stesso giorno dell’avvenimento». Per quanto possa sembrare sorprendente o incredibile questi uomini – padri o mariti – delle donne violate non usano la violenza ma ricorrono alla giustizia. C’è da ricordare che all’epoca la donna poteva fare denuncia solo con l’autorizzazione del padre o del marito.
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