- La vera norma manifesto del ddl è quella che divide i percettori di reddito, quindi i poveri, nelle categorie degli “occupabili” e dei “non occupabili”. Per i primi – è il messaggio – la pacchia è finita.
- Da un lato, l’esigenza di contrarre la spesa pubblica spinge una destra insieme identitaria e mercatista a screditare il ricorso ai sussidi, moralizzando il discorso pubblico sulla povertà.
- Dall’altro lato, la promozione del lavoro, nutrita di richiami alla sua “dignità”, è perseguita attraverso condizionalità così stringenti da rendere obbligate le peggiori occupazioni, le più precarie e meno retribuite.
Il ministro Giancarlo Giorgetti l’ha definito «coraggiosa», ma la legge di Bilancio appare a molti una manovra senza identità, in cui è a stento riconoscibile la veemenza delle posizioni di una destra che è cresciuta soprattutto all’opposizione del governo Draghi. Salvo per un aspetto, in realtà non secondario: il taglio al reddito di cittadinanza.
La vera norma manifesto della manovra è quella che divide i percettori di reddito, quindi i poveri, nelle categorie degli “occupabili” e dei “non occupabili”.
Per i primi – è il messaggio – la pacchia è finita. Perché, s’intende, il reddito di cittadinanza altro non è che un incentivo per i pigri, che della propria condizione di indigenza non hanno altri da incolpare che se stessi.
Nell’avversione ideologica a questo strumento sembra manifestarsi in massimo grado la logica di governo della povertà che ha dominato l’ultimo quarantennio: Disciplinare i poveri, come recita il titolo di un saggio di alcuni anni fa di Joe Soss, Richard Fording, Sanford Schram, da poco tradotto in italiano dall’editore Mimesis.
Da un lato, l’esigenza di contrarre la spesa pubblica spinge una destra insieme identitaria e mercatista a screditare il ricorso ai sussidi, moralizzando il discorso pubblico sulla povertà con richiami alla buona volontà, ai comportamenti virtuosi, al merito come porta d’accesso al benessere.
Significativo è, in questo senso, il tentativo del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara di escludere dal reddito di cittadinanza chi non ha completato il ciclo di studi inferiore. Rimosse le cause sociali della dispersione scolastica, anche questa è trasformata in un demerito individuale, a cui consegue una legittima sanzione.
Dall’altro lato, la promozione del lavoro, condita di richiami alla sua “dignità”, è perseguita attraverso condizionalità così stringenti da rendere le peggiori occupazioni, le più precarie e meno retribuite, più accessibili del sussidio, dunque obbligate.
Si può vedere questo orientamento riflesso anche nell’intenzione di legare al reddito di cittadinanza il decreto flussi per lavoratori e lavoratrici straniere: le quote di ingresso, ha affermato Matteo Piantedosi, verranno calcolate sulla base di quanti “occupabili” potranno, in prima istanza, andare a coprire la carenza di manodopera.
Per quei lavori, s’intende, che negli ultimi decenni sono stati svolti principalmente da stranieri e che (ora che la pacchia è finita) potranno invece impiegare gli immeritevoli percettori di sussidi.
La difesa sovranista dell’identità nazionale si salda così alla guerra contro gli ultimi, alla dottrina neoliberista del taglio spesa sociale, e al lessico della responsabilità individuale come giustificazione per le diseguaglianze.
Ciò che sparisce interamente dal quadro è l’impegno per un welfare universalista, non soggetto a logiche identitarie, paternalistiche o autoritarie.
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