I parlamentari che da mesi hanno il terrore di andare a casa se Mario Draghi salirà al Quirinale stanno difendendo il proprio seggio (e il relativo stipendio) in una istituzione sempre più inutile. La fase finale del percorso sulla legge di Bilancio certifica il punto più basso mai toccato nella pur deprimente storia della politica economica italiana.

La legge più importante dell’anno è arrivata ieri in aula al Senato, a tre giorni dalla vigilia di Natale, alla Camera passerà giusto un attimo, il 28 dicembre, per essere approvata entro il 31. C’è una riforma strutturale del fisco che vale 8 miliardi e non è stata mai davvero discussa dal parlamento.

In compenso alcuni parlamentari sono riusciti a inserire mance e marchette che, in teoria, sono incompatibili con lo spirito della legge di Bilancio, che definisce i grandi numeri, non le singole spese.

La legge di Bilancio non è stata il prodotto del dialogo tra governo e parlamento, ma tra governo e partiti (o meglio, tra ministri e capicorrente). Visto che questa volta praticamente tutti i partiti sono in maggioranza, non c’è alcun controllo su questa melassa decisionale: l’assenza di opposizioni evita che ci sia qualcuno che faccia ricorsi, denunce, polemiche.

Il clima di concordia nazionale e i negoziati sul Quirinale escludono la possibilità che il capo dello Stato o, se chiamata in causa, la Corte costituzionale possano censurare un processo che viola lo spirito e la lettera delle norme italiane ed europee che regolano la politica di bilancio.

Nel 2018, in una situazione meno grave, 37 parlamentari del Pd avevano fatto ricorso alla Corte costituzionale per denunciare il governo Conte che aveva riscritto con un solo emendamento la manovra per adeguare il rapporto tra deficit e Pil da 2,4 per cento a 2,04, come richiesto dalla Commissione Ue.

La Corte aveva riconosciuto che la pratica era discutibile, che l’articolo 72 della Costituzione (ogni legge va discussa ed esaminata da commissioni e aula, articolo per articolo) ormai non viene più rispettato. Ma in quell’occasione aveva riconosciuto all’esecutivo l’alibi di aver dovuto negoziare a lungo con Bruxelles, dunque non c’erano più i tempi per fare i passaggi parlamentari.

Il governo Draghi non ha alcun alibi. E dunque il richiamo della Consulta è più valido, e inascoltato, che mai: «Occorre arginare gli usi che conducono a un progressivo scostamento dai principi costituzionali, per prevenire una graduale ma inesorabile violazione delle forme dell’esercizio del potere legislativo, il cui rispetto appare essenziale affinché la legge parlamentare non smarrisca il ruolo di momento di conciliazione, in forma pubblica e democratica, dei diversi principi e interessi in gioco».

La democrazia parlamentare con maggioranza e opposizione che litigano sui provvedimenti di politica economica sarà forse un pessimo sistema decisionale, ma quello che stiamo vedendo all’opera è peggiore.

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