- Sul tema in campo da mesi, il possibile trasloco di Mario Draghi al Colle, il trambusto è apparso evidente col “noi no” di Berlusconi, Salvini e Conte e la conditio di Fratelli d’Italia per un baratto con nuove urne.
- Dubbi sono emersi anche in casa mia, nel Pd, col timore di una concentrazione di potere lassù e una fragilità della maggioranza quaggiù. Quadratura non facile.
- A meno di una resipiscenza della destra in queste ore con la volontà di convergere su un nome di alto profilo e garanzia, la cosa utile e saggia da fare è rivolgere al presidente Mattarella un appello a restare.
La destra ha tentato la spallata in versione fantozziana col capofila a prendere la rincorsa per sfondare una porta che gli viene aperta al dunque facendolo rotolare. Che la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati abbia chiesto di sottoporsi alla corvée o sia stata una pensata dei vertici, la sua bocciatura ha reso clamorosa l’impotenza di chi si era cucito addosso l’abito da kingmaker.
Tutto ciò mentre “fuori” un paese prosegue la lotta contro pandemia e crisi di redditi e fiducia e “dentro” non si capisce cosa Matteo Salvini voglia: se incamminarsi sul sentiero della coalizione di governo o “spezzare le reni” a Palazzo Chigi e incollare i tasselli di una destra arrembante a parole e impotente ad agire. In ballo, però, c’è la presidenza della Repubblica.
Sul tema in campo da mesi, il possibile trasloco di Mario Draghi al Colle, il trambusto è apparso evidente col “noi no” di Berlusconi, Salvini e Conte e la conditio di Fratelli d’Italia per un baratto con nuove urne. Dubbi sono emersi anche in casa mia, nel Pd, col timore di una concentrazione di potere lassù e una fragilità della maggioranza quaggiù.
Gli ostacoli all’intesa
In questo parlamento convivono formazioni dotate di una loro autonomia e una frammentazione di forze sempre più in difficoltà nell’esprimere una strategia comprensibile e unitaria. Se per anni si assiste al disarmo delle culture dotate di una loro identità o ragione d’essere e a una selezione del ceto politico affidato a criteri di fedeltà o improvvisazione, una volta che i buoi sono lontani dalla stalla indossare la maschera dell’indignazione risulta tardivo quanto inutile.
Di due carte preziose oggi il paese dispone: una, Sergio Mattarella, sta per traslocare dal Quirinale e siamo da giorni informati sulla pratica degli scatoloni. L’altra, Mario Draghi, sino qui ha diretto il governo, a mio parere discretamente bene. In questi mesi si è ripetuto che non sarebbe saggio privarsi in un colpo solo di entrambe.
Quanti ritengono che Draghi debba rimanere dov’è spiegano che il lavoro da completare è tutt’altro che concluso, quindi togliere il capitano dal timone equivale a restare orfani dell’ancoraggio che ha rassicurato l’Europa inibendo manovre speculative sul nostro debito. Ma proprio l’autorevolezza internazionale del capo del governo può offrire alle cancellerie del continente e ai famigerati mercati la garanzia sul nostro debito.
Eleggere al Colle più alto una personalità con quelle qualità e saperlo lì per i prossimi sette anni (vuol dire a coprire questa, la legislatura prossima e un tratto della successiva) avrebbe il vantaggio di stabilizzare un contesto con ogni probabilità destinato a subire nuovi contraccolpi sulla tenuta del sistema-paese. Ci si poteva riuscire? La condizione era una coesione della maggioranza di governo, il che non è avvenuto per volontà dichiarata delle due anime del centrodestra. E allora?
Allora, a meno di una resipiscenza della destra in queste ore con la volontà di convergere su un nome di alto profilo e garanzia, la cosa utile e saggia da fare è rivolgere al presidente Mattarella un appello – non disperato, ma squisitamente razionale – a compiere l’atto che in tanti gli hanno chiesto. Accettare di rinnovare il suo mandato consentendo al governo di completare il lavoro avviato preservandone la guida e spingendo per quell’opera di riorganizzazione di un sistema politico mai come oggi frantumato.
Abbiamo il gruppo misto più imponente delle democrazie occidentali e intere forze proiettate da qui a un anno a vedere dimezzata o peggio la propria rappresentanza. Dovesse finire così ci sarà chi griderà al fallimento della politica tout court?
Lo darei per scontato, ma da dirigente di una di quelle forze contro questo cupio dissolvi reagisco, e con un di più di rabbia. Anche in questa settimana di passioni tristi è giusto distinguere il buono di chi, a cominciare da Enrico Letta, ha scelto di non battere i pugni, ha evitato di esibire muscoli e inseguito con tenacia e qualche risultato di attraccare l’imbarcazione al molo senza danni. Non ho la sfera di vetro, dico che finora c’è riuscito e questo, almeno questo, credo sia giusto riconoscerlo.
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