Orsina pensa che le destre stiano diventando più pragmatiche ma c’è un’altra possibile evoluzione. Le guerre attuali producono più odio di quanto si immagini. Tale odio si solidifica in politiche anti-Occidentali e anti-democratiche
Secondo Giovanni Orsina, acuto osservatore di ciò che accade a destra dello schieramento politico, sia in Italia che in Europa, la politica della rabbia – trasformata in ondata di protesta populista – sta scemando, al netto di ciò che accade nell’ex Germania dell’Est.
Le emozioni sono volubili e non si può costruire su di esse nulla di duraturo, pena l’evaporazione politica. Stanchezza, rassegnazione e riflusso emotivo, secondo Orsina, segnerebbero l’odierno tempo della cultura politica in Italia e in Europa. Unica eccezione: un’eventuale vittoria di Donald Trump potrebbe sconvolgere il quadro attuale.
In effetti di rabbia si discute da tempo come di un volano cruciale: i forgotten, i dimenticati e gli esclusi (in genere di ceto medio) della politica tecnocratica portata avanti dagli ultra-liberisti alleati a sinistre intimidite e prive di impulso sociale si sono ribellati e la loro collera è stata intercettata da movimenti di destra, populisti o sovranisti a seconda del carattere nazionale in cui il fenomeno si è svolto.
Ma ora – secondo Orsina – è giunto il tempo del realismo e del pragmatismo che spinge a tornare a più miti consigli e corrisponde alla sfida di Giorgia Meloni. Al di là delle vicende nazionali, si può aggiungere qualcosa a tali ragionamenti. Osserviamo che la forza della rabbia può trasformarsi in qualcosa di molto peggiore: l’odio e il vuoto.
Non possiamo non considerare tale pericolo, particolarmente reale a causa delle due grandi guerre in atto: il conflitto in Ucraina e la guerra a Gaza, e ora in Libano. Come ingranaggi perversi le due guerre (come tutte le guerre) riescono a produrre più odio di quanto si possa immaginare. Tale odio rimane, si solidifica e sfigura l’architettura spiritale e umana di intere generazioni, trasformandole in peggio per un tempo molto lungo.
Dal momento che tali conflitti sono ancora (un po’) lontani, li “sentiamo” poco ma, come un veleno silenzioso, intossicano la nostra cultura e l’aria che respiriamo, in altre parole il nostro vivere civile. Nessuno sfugge al lento avvelenamento della cultura – sia alta che popolare – e del convivere sociale: cambiano i progetti di vita, i gusti, le priorità, e prospettive. Muta anche il modo di ragionare: si è più rassegnati e schiacciati sul presente, meno preparati a riflettere sul futuro in genere percepito come minaccia e irto di pericoli.
All’inizio del 1933, quando Hitler era appena andato al potere, lo scrittore Heinrich Mann pubblicò un libro preveggente intitolato L’odio, in cui raccontava come l’odio e il bellicismo si stavano impadronendo della Germania. È una lezione utile ancora oggi. Scriveva Mann: «Nella mente delle persone civilizzate la guerra (…) è un’ossessione di cui non possono liberarsi nemmeno per sfinimento… quanto minore rispetto nutrono verso di sé, tanto più intenso è l’odio per gli altri: “non possiamo combattere, vogliamo almeno odiare!” (…) l’odio nazionale è il più vuoto, il più incomprensibile di tutti i sentimenti…».
Sappiamo com’è andata a finire. Questo clima di odio e guerra fa male soprattutto ai giovani che si trovano in un contesto in cui il futuro scompare, cancellato dalle minacce mentre dovrebbe essere il loro orizzonte naturale. I nostri giovani sono male amati perché portatori di esigenze non più ammesse, in specie proprio quella del futuro. Ma la generazione più adulta non ha risposte o ne ha solo di autoritarie.
La “morte del futuro” è una delle caratteristiche della nostra società: come Marc Augé, ci chiediamo «che fine ha fatto il futuro?». Sulle nostre società occidentali si è abbattuto un presentismo immobile e soffocante, che annulla l’orizzonte storico e i punti di riferimento consueti. Ciò che rimane è una vita da consumare, come scrive Monsignor Vincenzo Paglia nella sua ultima fatica Destinati alla vita: affannarsi ad appagare le emozioni mentre il futuro evapora in una cultura anestetizzata e anestetizzante.
Già questo vuoto ci deve preoccupare: la stagione della rabbia si affloscia in un restringimento dell’io personale alla ricerca di confort, solo, isolato per scelta, che non vuole essere disturbato. Si comprende la reazione: se il mondo è così minaccioso, perché affrontarlo? Meglio non arrischiarsi ad accogliere o a sfidarlo: più comodo e rassicurante rintanarsi.
È la strategia assunta con il Covid: chiusi in casa, cercando di uscire il meno possibile, ricevendo ciò di cui si ha bisogno al massimo sull’uscio, piazzati davanti ai monitor (sia per le serie tv che per le videocall), lontani dall’incontro reale. Ci si può abituare a tale strategia dell’isolamento dove la politica appare come uno strumento lontano, valido per altri.
L’astensionismo elettorale nasce anche da qui. Così dalla collera si passa al vuoto sonnambulismo. Ma per altri versi l’odio può invece restare attivo, con le guerre ad alimentarne le assurde ragioni. Dominique Moisi ne descrive la micidiale evoluzione nel suo Il trionfo delle emozioni: alla paura, speranza e umiliazione che hanno definito il vecchio ordine emozionale globale, si aggiungono oggi odio, collera e rabbia estrema che sfigurano i popoli.
Si tratta di un “nuovo ordine emotivo mondiale” di fronte al quale l’autore franco-americano si chiede: «Al di là della rivalità tra la Cina e gli Stati Uniti, assisteremo forse all’emergere di un nuovo ordine tripolare tra Sud globale, Oriente globale e Occidente globale?». Questi tre universi si starebbero allontanando a causa della diversa psicologia con cui guardano al mondo, anche se restano uniti dall’interdipendenza economica o tecnologica.
Non va confusa la globalizzazione con l’interdipendenza: se anche il mondo si separa o si frammenta, nondimeno rimane interconnesso, anzi tali connessioni sono diventate le vie di trasmissione della collera, del risentimento e della frustrazione con cui i tre universi comunicano tra loro.
Tale contesto è favorevole per le destre estreme, quelle che non cercano – come auspicherebbe Orsina – il pragmatismo della convivenza ragionevole ma puntano tutto su una politica dirompente che faccia saltare gli equilibri democratici. È questa la sfida della democrazia e dell’Europa, legate assieme da una medesima lotta e da un medesimo destino.
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