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Oltre alla crisi energetica, il nuovo governo dovrà affrontare la sempre più probabile recessione e i soliti vincoli di finanza pubblica, e dovrà farlo nel mezzo di una tempesta valutaria globale.
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L’aumento dei tassi americani, e la previsione di ulteriori aumenti, ha comportato una forte contrazione nelle condizioni di liquidità, in parte soddisfatta dall’afflusso di dollari detenuti all’estero, visto il dominio intoccato della divisa americana negli scambi internazionali e nei mercati dei capitali. È così partito uno tsunami valutario che sta spazzando il mondo.
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Una tempesta valutaria con effetti duraturi, che rende ancor più difficile la gestione del nostro debito e della finanza pubblica. Se il futuro governo contasse esclusivamente sull’ombrello della Bce, potrebbe rivelarsi un catastrofico errore di valutazione.
Oltre alla crisi energetica, il nuovo governo dovrà affrontare la sempre più probabile recessione e i soliti vincoli di finanza pubblica, e dovrà farlo nel mezzo di una tempesta valutaria globale come non se ne vedono da cinquant’anni, ma della quale non sembra ci sia consapevolezza.
Negli Usa, dal 2019 la politica del quantitative easing ha più che raddoppiato i titoli nel portafoglio della Federal Reserve (oggi 9.000 miliardi). Questo, insieme al lungo periodo di tassi nulli e a una politica fiscale ultra espansiva (deficit al 14 e 10 per cento del Pil nel 2020 e 2021) ha causato l’impennata dell’inflazione, che a luglio ha superato il 9 per cento dopo 30 anni di stabilità intorno al 2 percento.
I costi sociali e la dislocazione di risorse che l’inflazione comporta ha costretto la Fed a imprimere, pur tardivamente, una repentina inversione di marcia: da marzo ha aumentato il suo tasso di riferimento di 300 punti (al 3,25 per cento), con il più rapido aumento degli ultimi 40 anni.
Ma non è finita: la stessa Fed prevede di arrivare al 4,4 per cento a fine anno, e al 4,6 a fine 2023. E potrebbe non bastare perché si stima che i prezzi, anche depurati delle componenti più volatili, stiano crescendo intorno al 4,5, quindi che i tassi reali, cioè al netto dell’inflazione, rimangano nulli.
L’aumento dei tassi, e la previsione di ulteriori aumenti, ha comportato una forte contrazione nelle condizioni di liquidità nell’economia, accentuata dalla stessa Fed che, a settembre, ha cominciato a vendere i titoli in portafoglio, drenando liquidità per 95 miliardi al mese.
A ciò si aggiungono la riduzione del risparmio precauzionale accumulato durante la pandemia e l’aumento dei margini di garanzia richiesti per le operazioni finanziarie e dei premi per il rischio (spread) richiesti ai debitori con minor merito creditizio.
La contrazione nell’offerta di moneta ha generato negli Usa un eccesso di domanda di liquidità, in parte soddisfatta dall’afflusso di dollari detenuti all’estero, visto il dominio intoccato della divisa americana negli scambi internazionali e nei mercati dei capitali. È così partito uno tsunami valutario che sta spazzando il mondo.
Oltre gli Stati Uniti
Il Giappone, unico a mantenere tassi negativi per uscire una volta per tutte dalla deflazione, ha visto lo yen deprezzarsi del 25 per cento da inizio anno, trascinando al ribasso le monete dei paesi con cui compete per l’export come Corea e Taiwan (svalutate rispetto al dollaro del 20 e 15 per cento), nonostante abbiano aumentati io tassi per controllare l’inflazione.
Anche la Cina si trova in mezzo al guado: da una parte, non vorrebbe perdere competitività nei confronti del resto dei paesi asiatici in un momento in cui la domanda interna è stagnante e l’export costituisce la principale fonte di crescita; dall’altra, teme che una forte svalutazione pregiudichi l’ambizione del renminbi ad assurgere a valuta di riserva internazionale e inneschi fuoriuscite di capitali.
Così, la moneta cinese ha perso il 12 per cento rispetto al dollaro (superando per la prima volta da anni la barriera dei 7,1 yuan), ma allo stesso tempo apprezzandosi rispetto allo yen nella stessa misura.
Tutti i paesi emergenti sono di fronte al dilemma: seguire la Fed e aumentare i tassi per difendere la valuta, ridurre il rischio di default sul debito estero in dollari e frenare l’inflazione importata da una parte; o lasciare che si svaluti per evitare la recessione, a costo di inflazione e rischio default.
Significativo che due paesi la cui moneta si è apprezzata rispetto al dollaro da inizio anno, Brasile e Messico, abbiano oggi un livello dei tassi triplo e doppio rispetto agli Usa, pur avendo un’inflazione all’incirca simile.
Il dilemma della Bce
Stesso dilemma per la Bce, che avrà quindi un ridotto margine di manovra di fronte alla recessione incombente e alla crisi energetica: nonostante il recente aumento dei tassi dello 0,75 e l’aspettativa di ulteriori aumenti nelle prossime riunioni, quest’anno l’euro ha già perso il 18 per cento rispetto al dollaro, segno di fuoriuscite di capitali che riducono la liquidità, che si sovrappone all’inflazione importata.
Ma con il cambio che non sembra aver toccato il fondo, alimentando l’inflazione importata, l’attesa per i futuri aumenti della Fed e la struttura dei tassi reali in euro fortemente negativa per qualsiasi scadenza (i tassi tedeschi a 2 anni, maggiormente significativi, sono all’1,9 per cento con l’inflazione l’anno prossimo stimata al 4,7), la strada per la Bce appare segnata.
E questo senza tener conto che la Bce deve ancora decidere quando e come ridurre l’enorme quantità di titoli in portafoglio, con ulteriore impatto sulle condizioni di liquidità dell’area euro.
Andare contro corrente come ha fatto il nuovo governo inglese, che ha deciso per una politica fiscale espansiva, comporta il costo elevato di un crollo della propria moneta, che da inizio anno ha perso il 28 per cento, alimentando così il rischio di inflazione, ma anche l’instabilità finanziaria.
Una tempesta valutaria con effetti duraturi, che rende ancor più difficile la gestione del nostro debito e della finanza pubblica. Se il futuro governo contasse esclusivamente sull’ombrello della Bce, potrebbe rivelarsi un catastrofico errore di valutazione.
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