- Le richieste di autonomia differenziata avanzate da tre regioni e, soprattutto, il modo in cui esse vengono trattate (dagli ultimi quattro governi) rischiano di provocare un radicale cambiamento del sistema pubblico senza che nessuno se ne accorga.
- La richiesta delle tre regioni (accettata nelle bozze di intesa) di finanziare le nuove funzioni attribuite con compartecipazioni ad aliquota fissa rompe la finzione retorica e apre la strada a una progressiva differenziazione della distribuzione delle risorse a favore delle aree più ricche del paese.
- Uno dei referendum consultivi proposti dalla Regione Veneto nel 2014 aveva per oggetto la trasformazione in regione a statuto speciale con attribuzione dell’ottanta per cento dei tributi erariali riscossi nel territorio regionale.
La riforma del Titolo V del 2001 introdusse nell’articolo 116 della Costituzione la possibilità di riconoscere alle regioni a statuto ordinario ulteriori forme di autonomia in tutte le materie. Una ticking bomb In un paese caratterizzato da forti disuguaglianze territoriali e in un ordinamento in cui da sempre esistono regioni a statuto speciale alle quali è riservato un trattamento di favore nell’attribuzione delle risorse finanziarie. Le richieste di autonomia differenziata avanzate da tre regioni e, soprattutto, il modo in cui esse vengono trattate (dagli ultimi quattro governi) rischiano di provocare, nel giro di pochi anni, un radicale cambiamento del sistema pubblico senza che nessuno se ne accorga, un’esplosione silenziata per continuare con la metafora.
Le questioni in gioco sono di due tipi: distributivo (le risorse disponibili alle varie aree del paese per finanziare i servizi pubblici) e allocativo (l’efficienza dei sistemi pubblici della sanità, dell’istruzione, ecc.).
La secessione dei ricchi
La questione distributiva è insita nella disuguaglianza della distribuzione del reddito tra Nord e Sud a fronte di servizi pubblici erogati sulla base di politiche nazionali che, in quanto tali, tendono a garantire l’uniformità delle prestazioni in tutto il paese.
Una contraddizione esacerbata dalla riscrittura della Costituzione operata dalla riforma del Titolo V, che, pur enfatizzando livelli essenziali delle prestazioni e uniformità dei servizi a livello nazionale, introduce come fonte di finanziamento principale delle regioni le «compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio» (in luogo di semplici trasferimenti dal bilancio dello Stato), con un’assimilazione al regime da sempre in vigore per le regioni a statuto speciale (per loro con aliquote di compartecipazione che arrivano al cento per cento).
La contraddizione si è subito posta per la sanità e non a caso si è dovuto ricorrere a una soluzione “retorica” per tenere insieme il riferimento al gettito delle imposte erariali raccolte nel territorio e il principio dell’uniformità.
La decisione sul finanziamento complessivo e il suo riparto tra le regioni avvengono a monte, configurando nella sostanza un sistema di trasferimenti dallo Stato.
Nella forma, tuttavia, si utilizza una ingegnosa formula nella quale si definisce una compartecipazione all’Iva con aliquota variabile ogni anno e un sistema di trasferimenti perequativi, che comunque dà il risultato deciso a monte.
La richiesta delle tre regioni (accettata nelle bozze di intesa) di finanziare le nuove funzioni attribuite con compartecipazioni ad aliquota fissa rompe la finzione retorica e apre la strada a una progressiva differenziazione della distribuzione delle risorse a favore delle aree più ricche del paese.
Del resto, uno dei referendum consultivi proposti dalla Regione Veneto nel 2014 (poi non ammesso dalla Corte Costituzionale) aveva per oggetto la trasformazione in regione a statuto speciale con attribuzione dell’ottanta per cento dei tributi erariali riscossi nel territorio. Intendiamoci: è lecito (in genere così è negli stati federali), anche se eticamente discutibile, decidere di abbandonare l’obiettivo dell’uniformità delle prestazioni in tutto il territorio nazionale.
Per fare ciò bisogna che le politiche pubbliche coinvolte perdano il loro carattere nazionale e quindi occorre accettare che l’area di residenza diventi un fattore rilevante per differenziare il trattamento tra le persone.
Quello che non è accettabile è prendere una tale decisione senza una grande discussione nazionale ma procedendo in sordina.
In ordine sparso
La questione allocativa riguarda la ripartizione delle competenze tra stato e regioni, con l’obiettivo di avere nelle grandi aree dell’intervento pubblico sistemi ben funzionanti.
Per fare un esempio, l’esperienza della pandemia ha messo in evidenza un grave difetto di coordinamento tra stato e regioni e, inoltre, dimostrato che non tutti i sistemi regionali, anche tra quelli fino ad allora ritenuti all’avanguardia, erano stati disegnati nel modo migliore.
Sarebbe importante individuare i punti deboli del disegno attuale nelle varie aree (ad esempio, la medicina territoriale, il rapporto tra pubblico e privato, le specializzazioni mediche) e trovare correttivi validi per tutte le regioni.
Di questo non si discute ma come se nulla fosse accaduto si procede in ordine sparso, all’insegna del “fate voi”. Anzi, si pensa di ripetere l’esperienza con l’istruzione e, di fatto, con tutte le materie, talvolta con richieste bizzarre (come l’autonomia nella ricerca aerospaziale).
Quella dell’istruzione è una questione cruciale per i danni che la frammentazione del sistema scolastico potrebbe provocare sull’unità della Repubblica.
Quale interesse nazionale
Una discussione su questi temi potrebbe ripartire da alcune questioni che erano state poste dai progetti di riforma costituzionale del 2005 (centro-destra) e del 2016 (centro-sinistra).
La prima introduceva la nozione di “interesse nazionale”, rivedeva la ripartizione delle competenze e aboliva il comma 3 dell’art. 116 (sì, proprio quello dell’autonomia differenziata).
La seconda dava preminenza esplicita all’interesse nazionale e riportava allo Stato la competenza esclusiva di varie materie, tra cui alcune ovvie (grandi reti di trasporto e navigazione; produzione, trasporto, distribuzione nazionale dell’energia; previdenza integrativa).
E’ davvero singolare che entrambi gli schieramenti politici abbiano dimenticato l’elaborazione che portò a quelle proposte.
E’ poi necessaria una riconsiderazione delle modalità di finanziamento delle regioni: il ruolo preminente attribuito alle compartecipazioni a tributi statali è il contrario di quello che si vorrebbe per tenere insieme autonomia e responsabilità.
Chi desidera andare oltre i livelli uniformi delle prestazioni nazionali dovrebbe utilizzare spazi adeguati di autonomia tributaria (più servizi, più imposte).
C’è infine, latente, una questione regioni a statuto speciale il cui esempio ha una forza di attrazione nei confronti delle regioni vicine (evidente nel caso del Veneto).
Sarebbe il caso, a oltre settanta anni dalla loro istituzione, di interrogarsi sulle ragioni attuali delle autonomie speciali e sul loro regime finanziario, troppo diverso da quello del resto del paese.
E’ emblematico come nelle regioni a statuto speciale del Nord la spesa pubblica pro capite sia superiore del 25-30 per cento alla media delle altre regioni del Nord e a quella nazionale mentre lo sforzo fiscale autonomo (aliquote delle addizionali Irpef, ecc.) sia inferiore.
Ma la storia parlamentare insegna come su questo sia meglio non farsi troppe illusioni.
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