Fumose assurdità di cui è difficile capire le reali intenzioni: le frasi del presidente Usa dopo l’incontro con il premier israeliano restano nel solco delle sue recenti dichiarazioni. L’unico baratto che Netanyahu può proporre in sinergia con il tycoon: far scomparire dalla terra il regime degli ayatollah. Ma è un piano impervio, che transiterebbe Israele fuori dalle democrazie liberali
Come sempre, le dichiarazioni trumpiane sono talmente fumose, assurde, egosmisurate da rendere inevitabile uno sforzo interpretativo. Il diavolo, si sa, si annida nei dettagli. Per comprendere le intenzioni del viaggio a Washington di Benjamin Netanyahu bisogna, forse, partire dalle parole che il premier israeliano ha pronunciato sulla scaletta dell’aereo alla partenza dal Ben-Gurion: «Riscriveremo un nuovo Medio Oriente».
È la sintesi perfetta dell’unica carta che Netanyahu può giocarsi per restare al potere, portando a compimento la sua lotta contro gli altri poteri dello Stato, autentico nemico della sua ultima fase politica, che si protrae ormai dal 2016-17, quando iniziarono a piovere dichiarazioni contro la magistratura che lo stava mettendo sotto indagine.
Prima tappa di un attacco al principio di separazione dei poteri che, ovunque, vorrebbe concludersi conl’assoggettamento all’esecutivo delle Corti, supreme o costituzionali. Stretto contro il muro delle sue contraddizioni, finora Netanyahu ha tentato di tenere insieme la volontà di vecchi e nuovi alleati e i delicatissimi equilibri interni al proprio governo, dando ulteriore via libera alle infami violenze dei coloni in Cisgiordania, dove è impressionante constatare la porzione di territorio sottratta con l’intimidazione mafiosa e con la forza squadrista nel corso dell’ultimo anno.
Il patto col diavolo
Progetti, veri, di pulizia etnica senza virgolette, da sempre perseguiti dalla destra khaanista (movimento abolito per legge dalle autorità israeliane negli anni ’90, ma, come ogni fascismo, sempre latente nel corpo sociale), sovente supportati dall’esercito. Vuoi per un antico principio ripuntellato con la Legge sulla Nazione del 2018, che lo obbliga a difendere gli insediamenti ebraici ovunque si trovino; vuoi per l’ennesimo patto col diavolo stipulato nel momento di formazione del governo quando concesse a Bezalel Smotrich deleghe speciali per la gestione della sicurezza in Cisgiordania.
Esempio dell’arte di tenere insieme le contraddizioni del popolo che Netanyahu attribuisce a se stesso, come una sorta di Re David redivivo.
E non è solo la violenza squadrista sfociata in veri e propri pogrom anti-palestinesi a mettere in allarme, ma anche la strategia di costruire insediamenti in profondità del territorio palestinese, in modo da boicottare ogni possibile trattativa futura.
Ma Netanyahu lo sa, questo gioco di tenere il piede in due scarpe ha il fiato corto. Prima o poi i nodi vengono al pettine, come già capitato con la guerra, che alla fine lo ha costretto ad un accordo che avrebbe potuto firmare uguale mesi fa, come non mancano di rimproverargli le famiglie degli ostaggi e le milioni di persone che le supportano in patria.
Resta una possibilità: continuare l’opera di riscrittura del Medio Oriente offrendo all’intera area - al mondo intero e alla popolazione locale a cui si è rivolto con due, diciamo irrituali, discorsi in inglese - la fine del regime degli Ayatollah, le cui ambizioni sono state ampiamente ridimensionate grazie alla folle strategia di Hamas inaugurata in quel fatidico 7 ottobre.
Un piano certamente capace di intercettare molteplici interessi, anzitutto dell’opposizione iraniana, visto che il regime di Teheran è uno dei più infami del pianeta e che da anni si regge solo sulla più barbara oppressione e sull’espansione militare di cui l’antica Persia è maestra. Un libro bibista dei sogni che si interseca con le frasi odierne trumpiane, talmente bislacche da doverle per ora derubricare nell’happening più in voga del momento: «L’idiozia del giorno di Donald Trump».
Strategia di Bannon
Assurdità a cui noi tentiamo di dare una copertura razionale, dicendo che è il modo di trattare dell’immobiliarista, che spara cento per avere dieci, che fa parte di una strategia bannoniana, ma a volte pare un nostro wishfull thinking per giustificare un inizio di presidenza, che sembra la prosecuzione della campagna elettorale con altri mezzi.
Facile avvalorare le parole trumpiane attraverso la più classica delle visioni economiciste, per usare il vocabolario di Dario Fabbri, che risolve le relazioni fra nazioni in rapporti economici, ma la realtà è assai più articolata.
L’ipotesi del trasferimento in massa dei palestinesi, non a caso scongiurata anche in minime proporzioni durante i mesi di una guerra durissima a differenza di quanto avvenuto in altri conflitti come quello siriano e ucraino dove i Paesi vicini hanno accolto milioni di migranti senza essere tacciati di assecondare un piano di pulizia etnica, creerebbe tali problemi interni ad Al-Sisi e Re Abdullah da mettere a serio rischio la tenuta dei rispettivi poteri. Senza contare che i soldi statunitensi possono essere compensati con quelli sauditi, che dal dopo Morsi piovono capienti sul Cairo.
Poi, per carità, Trump potrà annettersi il Canada, fare la guerra alla Danimarca, inglobare Panama, il tutto mentre manda l’uomo su Marte, crea un’umanità interstellare con Musk e rimpatria 10.000.000 di migranti, ma lo potrà fare disintegrando un sistema di alleanze a tutto vantaggio dei propri nemici.
Così come Netanyahu potrà proporre lo scambio Iran-Cisgiordania, assecondando la sete di conquista dei sionisti religiosi e puntellando il suo potere, ma lo potrà fare solo sottomettendo a sé la Corte Suprema, che sarebbe impedita a certificare un’annessione da due leggi fondamentali dello Stato e dalla Dichiarazione del 1948, che garantiscono il rispetto del principio di uguaglianza di tutti i cittadini.
Il demografo italo-israeliano Sergio Della Pergola ce lo ha insegnato: come conciliare democraticità e ebraicità dello Stato con una demografia sfavorevole? Ad occhio l’attuale governo non rinuncerebbe all’ebraicità. Per ora, il popolo israeliano ha resistito, ma certo il tema è serio in tutte le democrazie.
Sinceramente, desta sconcerto e preoccupazione ignorare questa dialettica interna ad Israele e all’ebraismo tutto riabilitando l’uso disinvolto di categorie generali e essenzialiste come «gli ebrei», che non solo ignorano il conflitto interno con cui sono tornati in auge termini antichi come «sinat hinam» (odio fratricida) e «milchemet ezrachim» (guerra civile), ma si rischia di additare un’intera comunità come bersaglio.
Patenti e pregiudizi
Speculazioni allarmistiche? Più 500% di attacchi antiebraici in Italia nel 2024 certificati dall’Osservatorio nazionale sull’antisemitismo. In Europa, anche peggio. «Ebrei», «musulmani», «zingari» sono categorie che stanno bene nel linguaggio evoliano dell’Alt-right, ma non dovrebbero avere licenza in un vocabolario progressista.
E, va sempre ribadito, non si tratta di distribuire patenti o meno di antisemitismo alle persone, ma di ragionare insieme sui pregiudizi ereditati dalla tradizione. Unico antidoto per mantenere quel discernimento necessario in un mondo a trazione trumpiana, che si profila ancor più caotico di quanto sperimentato in questi anni di crisi internazionali continue.
Siamo sempre lì: tutto Israele pensa al 7 ottobre come una data spartiacque che impone un ridisegno dell’area mediorientale che garantisca minimi standard di sicurezza al proprio Stato; ma una parte pensa che debba avvenire attraverso un accordo regionale con vecchi e nuovi partner anche con un loro coinvolgimento nella gestione della questione palestinese, per un’altra è l’occasione di implementare il progetto del grande Israele transitando lo Stato ebraico fuori dalle democrazie liberali.
Credo che solo un pregiudizio antisionista che interpreta Israele come un’entità imperialista tout court possa inserire queste due parti nella stessa categoria di «ebrei».
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