Un saggio di Michael J. Sandel sulla «democrazia stanca» ci spiega da dove nasce non tanto il successo della destra populista di Trump, ma la sconfitta dei democratici americani
L’aneddoto gustoso è di Giorgio Ruffolo e risale a qualche anno fa: due signorotti fanno una gita in mongolfiera quando cala una fitta nebbia e perdono l’orientamento. Appena la foschia si dirada scorgono sul sentiero sotto di loro un uomo a passeggio e dall’alto gridano, «Voi laggiù, ci sa dire dove siamo?». L’altro alza lo sguardo e pronto replica, «su una mongolfiera». Allora, il primo rivolto al compagno, «la risposta è corretta ma non ci serve a nulla: dev’essere un economista!».
L’episodio mi è tornato a mente leggendo La democrazia stanca (Feltrinelli, 2024), riedizione aggiornata di un saggio di quasi trent’anni fa di Michael J. Sandel. Secondo l’autore la frustrazione costante di Obama era nel fatto che i politici non capissero l’economia, a differenza del suo vicepresidente, Joe Biden, convinto fossero gli economisti a ignorare le regole della politica.
Comunque la si pensi, questione centrale per comprendere da dove si è originato non già il successo recente della destra populista di Trump, ma la sconfitta dei democratici americani. «L’era della globalizzazione è vissuta su una concezione avvizzita della politica», così Sandel riassume la subalternità del pensiero progressista al ricatto di un’ideologia vestita di dottrina economica. Acquisito tale limite, il passo successivo starebbe nell’obbligo di rinegoziare il rapporto tra capitalismo e democrazia.
Ora, volendo risalire un tratto di strada la domanda è come si è arrivati a dove ci troviamo, anche se in buona misura la materia è nota, intendo la pars destruens. Parliamo dell’onda neoliberale che dagli anni 80 e 90 ha ampliato la forbice tra vincenti e perdenti dentro il cuore dell’Occidente più democratico e avanzato. Grandi guadagni per chi sedeva ai vertici della piramide sociale compensati (si fa per dire) da una perdita scioccante di posti di lavoro, salari inchiodati, una restrizione degli accessi alla cittadinanza sotto forma di tutele individuali, l’irrompere di paura e rancore verso la condizione di declino della classe media. Diciamo che quell’approccio, apparso trionfale dopo il 1989, ha retto per un tratto non breve, più o meno fino alla crisi del 2008 quando il sistema impiantato si è trovato sull’orlo dell’abisso.
Il punto è che per quattro decenni la dottrina citata aveva negato qualunque alternativa possibile: un’economia soggetta al dominio della finanza speculativa, la competizione giocata sui bassi salari con l’incremento di un imponente debito, dapprima pubblico, poi anche privato, avevano descritto la realtà per come inevitabile. Il tutto scortato da un incremento della produttività senza che i lavoratori ne godessero, se non in minima parte, e una quota crescente di profitti tradotta in dividendi per ricchi azionisti e manager con buona pace dell’umanità residua.
Il sarcasmo di Blair
Ripeto, cose note. Al tempo, i pochi che azzardavano una critica finivano confinati nel limbo dei profeti orfani di profezia: figure marginali dentro il mainstream imperante. Ancora Sandel ricorda l’ironia di Tony Blair quando ai profani della globalizzazione replicava invitandoli a discutere se l’autunno dovesse seguire l’estate. Bene, ma di preciso cosa si intende quando si pone l’accento sulla sconfitta strategica e culturale del blocco progressista?
Ridotto all’osso, vuol dire che alla prova del governo anche gli esponenti di quella parte hanno mutuato come inappellabili le soluzioni prospettate dai nostri avversari. Imporre il settore privato come motore pressoché esclusivo della crescita; limitare l’intervento dello Stato al minimo chiudendone il bilancio in pareggio, meglio se in attivo; tenere bassa l’inflazione e stabili i prezzi; aprire il mercato azionario a investitori stranieri; togliere regole all’economia creando la massima concorrenza interna; allargare il sistema bancario e delle telecomunicazioni alla proprietà privata e alla concorrenza offrendo ai cittadini la scelta tra forme diverse di risparmio previdenziale: aver acquisito anche a sinistra questo panel di politiche come nuova “provvidenza” ha tolto parecchi argomenti alla distinzione tra progressisti e conservatori.
Risolutiva in tal senso la battuta di Clinton a un paio di suoi consiglieri: «Spero vi rendiate conto che siamo tutti repubblicani alla Eisenhower e stiamo combattendo i repubblicani alla Reagan. Siamo a favore della riduzione del disavanzo, del libero commercio e dei mercati obbligazionari. Non è fantastico?».
A coronamento, i due mandati di Obama non si sono distinti dalla medesima impostazione. Dinanzi al collasso di un capitalismo speculativo, l’uomo della speranza («Yes, we can») poteva scegliere se imboccare la via del cambiamento o risuscitarne i fasti. A partire dalla scelta dei protagonisti economici della sua amministrazione, il primo presidente afroamericano ha optato per la seconda soluzione.
Dieci milioni di proprietari di case hanno così perso l’abitazione in seguito ai pignoramenti mentre la Casa Bianca metteva in sicurezza le banche di Wall Street senza neppure chiedere in cambio di non ostacolare una riforma dell’industria finanziaria. Anche negli anni dei democratici al potere, dunque, a prevalere è stata la stabilità di quel sistema archiviando la dialettica tra capitalismo e democrazia come, al più, nobile retaggio di un’epoca sbiadita.
Il populismo, non una sorpresa
Il risultato del tutto? Lo si può riassumere a questo modo, quando la sinistra smette di difendere interessi e bisogni del popolo, il popolo guarda e bussa altrove. Mica per caso dopo otto anni di amministrazione Obama, i tre quarti degli elettori americani dichiaravano di cercare un leader capace di togliere il paese «dalle mani dei ricchi e dei potenti».
Letta in quest’ottica, la risposta populista è stata tutto meno che una sorpresa. Sempre Sandel descrive quella tradizione rammentandone i filoni principali. Da un lato la mobilitazione del popolo contro le élite, le disuguaglianze e un potere economico troppo indipendente dalla politica. Dall’altro una matrice razzista, antisemita, condita dal richiamo al nativismo americano. Negli anni della sua ascesa tra giovani e disoccupati Bernie Sanders si era fatto paladino del primo filone.
Con spregiudicatezza Donald Trump li ha cavalcati entrambi. «Quando l’opinione pubblica e i ricchi sono in disaccordo, i ricchi hanno la meglio», forse conviene non ignorare la vecchia massima, ma scegliendola a premessa la questione si fa seria poiché implica ripensare l’economia affinché torni a dipendere da un controllo democratico e insieme a ciò ricostruire una dimensione sociale capace di ridurre disuguaglianze indecenti, ma pure distanze all’apparenza incolmabili tra modi di pensare e interpretare la società dei prossimi decenni.
In questo senso l’alternativa alla destra non può ridursi a un’addizione programmatica. Non può bastare perché sempre di più dietro il traguardo di un buon governo vi sono interrogativi che esigono l’approccio dell’etica e di una moralità condivisa. Per capirci, quali sono i nuovi beni da promuovere e sottrarre al dominio del mercato? Come ricostruire la fiducia venuta a mancare nel rapporto tra lo Stato e l’individuo?
La pandemia e il possibile
In questo senso, solo a volerlo vedere, la pandemia un risultato lo ha imposto: un cambiamento repentino e profondo delle strategie di governo soppiantando assunti e convinzioni rimasti a lungo il fondamento di un disegno partorito come neoliberale e maturato in vesti reazionarie. A quel punto, a molti è apparso chiaro che la politica non può piegarsi mai al ricatto della necessità.
Quando accade essa, la politica in quanto tale, cessa di operare e l’attività del governo si adatta al primato della tecnica e di chi la sa interpretare meglio. «Bisogna tornare all’idea della politica come continua negoziazione tra il necessario e il possibile… la pandemia ha dimostrato come gli eventi possono spostare quella linea di demarcazione»: insomma, dopo il tempo dell’oblio si dovrebbero riconoscere le ragioni di John Maynard Keynes quando durante il secondo conflitto mondiale dichiarò, «tutto ciò che possiamo fare in questo momento, possiamo permettercelo».
Ecco perché, col pudore del caso, vien da pensare che la costruzione dell’alternativa a questa destra torna a essere anche una questione filosofica e morale dal momento che, al di là dei capitoli della crescita e della redistribuzione di diritti, risorse, opportunità, investe il modo di concepire la convivenza degli uni con gli altri in un mondo che non possiamo più sfruttare all’infinito.
Quel sarcasmo di Tony Blair su quanti volevano discutere i ritmi delle stagioni, non per caso trova oggi il suo ribaltamento nel cambiamento climatico che le stagioni tradizionali sta riconfigurando davvero, mentre una destra incosciente prosegue a danzare sul ponte del piroscafo.
Come ha scritto Sergio Labate in un bell’articolo su queste pagine, capire l’errore di una sinistra che alla privatizzazione del mondo per anni ha opposto solamente una presunta superiorità razionale può voler dire spostare il confine tra ciò che appare necessario e quanto si immagina di nuovo possibile: datemi una sola buona ragione che ci impedisca di ripartire da qui.
© Riproduzione riservata