- La pandemia sembra già un ricordo. Basta una passeggiata nel centro di Roma o di Milano, in questi giorni di tarda primavera, per tastare l’intensità del desiderio di socialità, movimento, consumo.
- La frenesia da tempi nuovi, però, suscita allarme per la tenuta non solo economica e sociale, ma anche morale, di un paese sfinito. Lo raccontano tragedia di Stresa e l’aumento di morti sul lavoro.
- Accanto alla cautela cui invitano gli esperti sanitari, servirebbe la capacità di mantenere viva la “lezione” del Covid-19, con il sovvertimento che ha provocato nel rapporto tra difesa della vita e difesa del profitto.
Con tre regioni che passano in “zona bianca” e le partenze per il ponte del 2 giugno, si comincia anche in Italia a parlare di ritorno alla “normalità”. Con la campagna vaccinale che procede a pieno ritmo, la scarsità di dosi, farmaci, dispositivi di protezione, respiratori, sembra già un ricordo. Basta una passeggiata nel centro di Roma o di Milano, in questi giorni di tarda primavera, per tastare l’intensità del desiderio di socialità, movimento, consumo.
La frenesia da tempi nuovi, però, suscita anche allarme per la tenuta non solo economica e sociale, ma anche morale, di un paese sfinito. La tragedia di Stresa e l’aumento di morti sul lavoro nel 2021 raccontano il danno che può provocare la ricerca del profitto, nell’assenza di controlli di sicurezza. Non siamo usciti “migliori”, a quanto pare, dalla pandemia. Ne siamo usciti peggiori?
Un anno fa, nello shock della prima ondata del virus, filosofi e intellettuali dipingevano scenari di mutamento radicale. Giorgio Agamben preconizzava l’avanzata di un nuovo totalitarismo, teso a ridurre gli esseri umani a corpi senza volto. Naomi Klein metteva in guardia contro l’avanzata del «capitalismo dei disastri». Slavoj Žižek vedeva emergere dalla pandemia l’urgenza di una nuova organizzazione globale in grado di controllare e regolare l’economia, pena altrimenti la morte di massa: «comunismo o barbarie».
Cosa ne è oggi di queste visioni? Ognuna, si può dire, ha avuto in parte ragione ed è stata in parte smentita. Le garanzie costituzionali delle libertà fondamentali escono intatte dalla pandemia, ma esce anche aumentato il livello di sorveglianza digitale sulle nostre vite.
Il Covid-19 ha arricchito i colossi della Silicon Valley e dell’industria farmaceutica, mentre ha causato la perdita di decine di milioni di posti di lavoro. Ma ha anche indotto, negli Stati Uniti, in Europa, in Italia, la crisi della dottrina neoliberista dell’austerità e un cambio di rotta rispetto all’investimento pubblico nell’economia. Non il comunismo, ma nemmeno la barbarie.
Nella ripartenza, quindi, il quadro non è immutato. Eppure non è avvenuto quel rivolgimento radicale che qualcuno ha temuto, qualcuno sperato. Gli investimenti sociali – in Italia, i fondi del Next Generation Eu – potrebbero frenare gli impulsi verso la “restaurazione”, ma è ancora assai dubbio che il tempo a venire possa garantire un’effettiva riduzione delle diseguaglianze sociali, territoriali, di genere, e un nuovo rapporto tra umano e ambiente.
Intanto, l’Italia torna al business as usual con i difetti di sempre, aggravati dall’incertezza sul futuro. Non è bastata una pandemia, con il sovvertimento che ha provocato nel rapporto tra difesa della vita e difesa del profitto, per modificare in profondità la scala dei valori collettivi.
Ora, accanto alla cautela cui invitano gli esperti sanitari, servirebbe anche la capacità di mantenere viva la “lezione” del Covid-19 nella sfera pubblica. Perché la rimozione del nostro vissuto, nell’ansia di ripartire, lascia aperto l’interrogativo inquietante: verso dove?
© Riproduzione riservata