- Putin ha buttato via anni di costruzione del soft power russo preferendo la potenza militare
- L’ansia russa per i propri confini e per lo spazio territoriale è ingiustificata ma reale e spinge a molte decisioni sbagliate
- L’Europa si deve chiedere quale tipo di normalizzazione con la Russia corrisponde al suo interesse
C’è un paradosso in questa assurda guerra: Vladimir Putin ha rinunciato al soft power accumulato dalla Russia in 20 anni, optando per una visione puramente territoriale di potenza militare. Ha buttato all’aria anni di scivolamento favorevole a Mosca da parte di alcuni segmenti dell’opinione europea: una parte della destra cristiana, populisti di vario tipo, tutti i sovranisti e gran parte degli ambienti conservatori in generale.
Molti vedevano in lui il condottiero a difesa dei valori cristiani: in Siria il protettore dei cristiani d’Oriente; nei Balcani il patrocinatore dei serbi.
Per tale destra europea Putin era divenuto un antemurale dell’Occidente incapace di difendersi da solo, un riparo per i valori della tradizione. Ciò spiega anche la simpatia che attirava da parte di un pezzo di evangelicali e cristiani conservatori americani.
Anche diversi dirigenti della destra polacca e soprattutto ungherese, malgrado la loro antica diffidenza per la Russia, si erano ritrovati su questo fronte, in compagnia di alcuni consiglieri di Donald Trump (come Steve Bannon). Salvo Viktor Orbàn, ora tutti i suoi ammiratori fanno rapidamente retromarcia o nascondono le loro antiche simpatie.
In molti si dichiarano “delusi” dal comportamento di Putin, eppure bastava ascoltarlo o guardare ai fatti per coglierne le contraddizioni: la guerra di Cecenia è terminata, oltre che con immani distruzioni, anche mediante un accordo con una parte degli estremisti islamici. Ora a Grozny vige una forma di sharia.
In Georgia Mosca ha favorito gli abkhazi musulmani ai georgiani ortodossi. In Nagorno Karabakh ha consentito la vittoria di Baku sugli armeni.
Si poteva fermare Putin? Se lo è chiesto Piero Ignazi su queste pagine: «Forse sì ma la supponenza politico-morale occidentale ha impedito passi intelligenti in questa direzione». Si è voluto trattare la Russia come «un’anomalia a cui insegnare con condiscendenza come stare al mondo», per usare le parole di Henry Kissinger.
Occorre sempre tenere presenti la storia e le identità (vere o percepite) di ciascun paese. L’ansia russa per i propri confini e per lo spazio che la separa dalle altre potenze occidentali, forse è ingiustificata ma esiste: «portare i missili sull’uscio di casa», scrive sempre Ignazi, non è stata una scelta di buon senso.
La solitudine russa
Per capirlo è cruciale guardare il volto della Russia attuale. Gli ideologi più ascoltati al Cremlino parlano di “solitudine geopolitica” dopo molti tentativi (a loro parere infruttuosi) di integrarsi nella civiltà occidentale. Si tratta dell’ultima versione dell’antica diatriba interna russa tra slavofili e filo-europei, basata sull’idea che ogni volta che la Russia si avvicina all’Europa viene respinta sdegnosamente.
Sempre secondo costoro, nemmeno la Russia depotenziata di Boris Eltsin è riuscita a farsi accettare dall’Occidente: troppo grande, troppo tentacolare e caotica, un paese di 11 fusi orari non può che spaventare i suoi vicini.
Secondo tali pensatori anche volgersi verso l’Asia non aiuta: il fenomeno c’è già stato e la collaborazione con «l’ orda asiatica» non ha portato bene alla Russia.
Secondo tale visione, tra il rischio di finire soggiogata dalle dinastie dei discendenti dei Khan da una parte, e le pressioni polacca prima e tedesca poi dall’altra, la Russia si è trovata stretta da nemici o, per meglio dire, si è scoperta senza amici.
Il mondo russo
Un ideologo, una volta vicino al Cremlino e oggi pare arrestato per corruzione, Vladislav Surkov, scrive: «la Russia per quattro secoli si è spostata verso est e per altri quattro secoli verso ovest, senza mettere radici né di qua e né di là. Ha viaggiato in entrambi i sensi. Probabilmente non siamo una terza civiltà ma una civiltà duale e ambivalente, sia europea che asiatica».
L’analisi geopolitica russa ricalca tale identità errante e ibrida: la storia del paese viene presentata come bipolare: carismatica ma solitaria.
«E’ giunto il momento – prosegue Surkov – che la Russia abbracci il suo destino di solitudine: la Russia commercerà, attirerà investimenti, scambierà conoscenze, combatterà (perché la guerra è anche un modo per comunicare), parteciperà a progetti comuni, competerà e collaborerà, susciterà paura e odio, curiosità, simpatia e ammirazione».
Consigliando ai propri concittadini di non stupirsi del rigetto degli altri, conclude: «i nostri alleati siamo noi stessi. Di cosa sarà fatta questa futura solitudine? Dipende solo da noi russi».
Tale dottrina viene chiamata del russkij mir, del mondo russo (mir significa pace e mondo): la Russia è il centro e le sue idee vanno diffuse verso le periferie (l’estero vicino), per costringerle ad entrare nell’orbita di Mosca.
E’ un’idea imperiale che gran parte delle istituzioni della chiesa russa sostengono: il russkij mir è il bene: tutto il resto tende al male.
L’identità ucraina
Questa guerra ha due protagonisti e un duplice risvolto: ce n’è uno anche per l’Ucraina. Paese composito, plurale e frammentato, si trova ora a consolidare un’identità grazie all’attacco russo.
Molti ucraini russofoni dell’est sono divenuti fortemente nazionalisti: è proprio su di loro (che secondo Putin avrebbero dovuto accogliere con gioia l’invasione) che si sta scaricando gran parte della violenza bellica.
Nella fornace della guerra nasce la nazione ucraina partorita nella sofferenza: sono le “terre di sangue” di cui scrive Timothy Snyder.
Al contrario i nazionalisti russi considerano l’Ucraina parte integrante della Russia e non temono l’odio: non si fanno illusioni sui sentimenti degli altri popoli nei loro confronti.
Tale solitudine culturale è fatta di terra e popolo: terra come spazio da preservare, da utilizzare contro il nemico (vedi la terra bruciata davanti a Napoleone). Popolo non come nazione nel senso occidentale ma come mescolanza di genti diverse sotto un unico regno, un unico potere verticale.
Per questo Mosca – al contrario di come si immagina in Europa – da sempre pensa in termini di sfere di influenza territoriali, prima che culturali o religiose.
L’estero vicino interessa la Russia perché da esso dipende la sicurezza di un paese così vasto da poter essere penetrato da più parti.
L’intento attuale è di allontanare l’Occidente (la Nato) dalla propria frontiera: una questione di spazio. Contemporaneamente per Putin, e il suo cerchio magico, si tratta anche del tentativo di disintossicarsi dall’influenza occidentale che – secondo loro – tanto male ha fatto alla Russia negli anni Novanta, dopo la rovinosa caduta dell’Urss. Rendere l’Europa dipendente dal gas russo è stato un modo di saldare un vecchio conto, rovesciando il rapporto di subordinazione.
Il fenomeno degli oligarchi, che in Europa si interpreta come creazione del potere assoluto russo, da Mosca è percepito come un’anomalia importata dall’Occidente.
Il futuro dei rapporti con la Russia
Davanti a tutto questo sembra prudente riflettere da subito –a combattimenti in corso- su quale tipo di normalizzazione con la Russia convenga all’Europa.
L’interesse dell’Unione Europea è trovare una via politica con l’attuale leadership del Cremlino, che rimarrà assai diversa da come la vorremmo noi europei (a meno di non ricadere nel vagheggiare l’esportazione della democrazia). Dopo la guerra non è da escludere la ricostruzione di un quadro di regole di convivenza comune, già oggi impellente.
L’alternativa sarebbe guerra (o tensione) permanente, con una Russia sempre più problematica e che rimarrebbe a lungo minacciosa per la pace del continente. All’Europa non conviene scegliere uno stato di crisi perenne: non è nei suoi interessi. Pur non cambiando giudizio sull’aggressione all’Ucraina, si tratta di semplice logica: la Russia non scomparirà, la sua alterità sarà duratura, non esiste possibilità di “vincerla” o comprimerla in alcun modo.
Le allusioni a tale possibilità, ventilate a Washington ma soprattutto a Londra, dipendono da fattori interni di chi le enuncia, senza corrispondere ad alcun vantaggio per l’Europa continentale. Reali e duraturi cambiamenti possono avvenire solo dall’interno: la democrazia non si impone ma si compone, mediante un soft power attrattivo.
Tale attrazione può spaventare il potere autoritario il quale a causa di tale timore può scatenare la guerra: per questo è logico tentare di abbreviarla al fine di non offrirgli alcun beneficio. Ecco perché è necessario differenziare Ue e Nato: non sono la stessa cosa e non devono essere schiacciate l’una sull’altra.
Mosca potrebbe accettare di dialogare con l’Ue mentre con la Nato ha più volte espresso le sue rimostranze. Differenziare le due istituzioni ha un valore pragmatico: servono a compiti distinti, ciascuna nel suo campo.
Tra Nato e difesa comune europea
La Nato è stata e continua ad essere molto utile per porre un limite e contenere le velleità bellicose dei falchi del Cremlino. Allo stesso tempo non può offrire una soluzione di dialogo, un quadro politico negoziale, mentre la Ue può farlo.
L’Europa deve usare i due ferri in modo diverso e riprendere su basi nuove il negoziato sulla cooperazione e la sicurezza in Europa, ad iniziare dai trattati di disarmo reciproco che coinvolgono anche gli Usa. Proprio per le sue caratteristiche di alleanza di difesa collettiva, la Nato non può intervenire in funzione preventiva o di stabilizzazione concordata.
Al contrario una forza militare europea può farlo rappresentando il tentativo di creare una forza di “polizia internazionale” di cui si sente da tempo il bisogno. In questo potrebbe essere accettata anche dalla Russia e addirittura collaborare con il suo esercito.
Se turchi e russi stanno cooperando a livello militare in Armenia-Azerbaijan, perché un esercito europeo non potrebbe? Si tratta di una risposta concreta alla necessità di autonomia strategica dell’Europa e di un modo per contenere tragedie.
Va risolta anche la questione nucleare: se crea una sua forza di difesa comune, l’Europa diventa una potenza nucleare (inglobando cioè la force de frappe francese) oppure no? E se ciò non accadesse, quale dovrebbe essere il suo atteggiamento nei confronti della necessità di riprendere al più presto i processi di disarmo nucleare?
La pace calda e la guerra umanitaria
Secondo il filosofo sloveno Slavoj Zizek, la Russia non sta tentando di imporci una nuova guerra fredda ma una “pace calda”, una guerra ibrida permanente dove gli interventi armati sono mascherati da peacekeeping (come in Donbass dicono a Mosca) o per scopi umanitari.
Ciò che vediamo è brutale oltre ogni limite e contraddice i termini usati. Purtroppo tante altre guerre fatte dall’Occidente negli ultimi 20 anni hanno usato medesime denominazioni.
In Europa la polemica sulla guerra del 2003 in Iraq – presentata come umanitaria e basata su false prove – è stata talmente forte da segnare la fine di importanti carriere politiche (Tony Blair) creando una costante diffidenza su ogni altra avventura militare.
Danni collaterali e fallimenti del regime change sono sotto gli occhi di tutti e Hollywood ha popolarizzato in vari modo le agende nascoste e gli interessi sporchi e corrotti di quella guerra, come di altre.
Mosca arriva buona ultima nell’utilizzo di tali svalutate scusanti e crede di avere buon gioco sottolineando quanto gli occidentali le hanno sfruttate per coprire le proprie guerre. Davanti a tale gioco manipolatore, chi si indigna oggi si ricordi se lo fece in passato, per risultare credibile.
La differenza vera è che in Usa ed Europa tali fasulle narrazioni durano poco e vengono presto alla luce: è il vantaggio della democrazia.
In Russia ciò è più difficile: a Mosca sono tanti a pensare che esista una “verità russa” sulla globalizzazione, altermondialista e tradizionalista al medesimo tempo, favorevole ad un mondo multipolare da un punto di vista geopolitico. Costoro sono convinti che occorre battersi affinché l’Occidente smetta di ergersi come unico protagonista.
Qui sta il punto: un nuovo equilibrio di sicurezza e cooperazione in Europa deve valere per tutti. Invece stiamo rischiando di restare intrappolati in un artificioso neo-bipolarismo: quello tra democrazie e autoritarismi che si sfidano con violenza.
Se ne parla da tempo (l’idea di fare l’Onu delle democrazie è di Bill Clinton) anche se in realtà il chiaroscuro politico tra democrazie avanzate e autoritarismi è più complesso e sfumato. Accettare il terreno della violenza avvantaggia gli autoritarismi: le democrazie risultano sempre impreparate e rischiano di deturparsi se scendono a tale livello, che mescola la malvagità dei “buoni” con quella dei “cattivi” e tutto confonde.
La guerra infatti tira fuori il peggio da ciascuno e non esiste il mito della guerra pulita, “zero morti”, senza danni ai civili. La malvagità perversa della guerra non risparmia nessuno e finisce per coprire tutti gli eccessi. Non esistono regole in guerra, mai.
Cosa fare per l’Ucraina
Se la guerra continua, l’Ucraina potrebbe essere distrutta al punto di divenire uno Stato non sostenibile, come nel caso della Siria che è stata quasi cancellata dalla carta geografica.
E’ ciò che dobbiamo evitare per Kiev e per tutta l’Europa perché la guerra ha conseguenze anche sulle democrazie. Un altro rischio di questo tipo di guerra è l’uso delle armi nucleari. Se al posto della restaurazione della pace (complessa ma necessaria) si punta al regime change o alla vittoria militare, si corre il rischio dell’utilizzo delle armi di distruzione di massa.
Più lucido sfruttare politicamente il fatto che la Russia ora è in difficoltà, senza incoraggiarla a prendere misure disperate. Occorre resistere alla polarizzazione dell’odio e ad ogni forma di esclusione.
Fornire armi senza limiti appare una politica grossolana: possono finire nelle mani sbagliate, durante la guerra ma certamente dopo di essa, e ciò potrebbe creare i presupposti di un’Ucraina-stato fallito in mano a milizie o mafie armate. Mosca farà di tutto perché ciò accada: è il minimo che possiamo aspettarci.
La storia recente dei Balcani, spesso additati per essere caduti preda delle reti criminali, ce lo suggerisce.
D’altro canto anche in Russia non tutto è perduto: più di un milione e 200.000 firme dei vari appelli per la pace malgrado la forte repressione.
Dal 2014 sia Ucraina che Russia sono cambiate e anche una parte della società russa sta maturando una sorda opposizione alla guerra: dobbiamo trovare il modo di sostenerla invece di chiudere tutti i contatti.
L’attuale generazione europea non può sprecare il grande dono ricevuto: non aver dovuto combattere una guerra come i propri padri e nonni, non essere cioè passata per la terribile fornace che tutto sfigura e ingoia.
Si chiede Domenico Quirico: «dove sta allora la differenza che separa le guerre delle democrazie da quelle delle tirannidi? Sta in ciò che accade dopo». E’ così: dobbiamo con urgenza pensare al dopo iniziando da ora, pensare alla fine della guerra, a come uscirne, a come negoziare una tregua subito e una pace poi.
Il dopo ci definisce: noi guardiamo già al dopo, quando regnerà la pace che porta con sé tutto il resto: giustizia, ricostruzione, riconciliazione… Per questo il dopo va affrettato.
Le guerre dei poteri autoritari tendono a non terminare mai ma ad installarsi durevolmente: servono per la permanenza al potere. L’autoritarismo punta alla vittoria; la democrazia punta alla pace, che è molto più della vittoria perché significa guarire le cause stesse che hanno portato al conflitto affinché non si ripeta.
La vittoria schiaccia tutto e tutti, spesso creando i germi della prossima guerra. Noi europei lo abbiamo appreso con gli errori commessi alla fine della prima guerra mondiale, cercando di non ripeterli dopo la seconda. Così è nato il sogno dell’unità europea. Non disperdiamolo.
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