- La spaventosa aggressione contro l’Ucraina sferrata da Putin spinge istituzioni culturali e centri del sapere a un’ossessiva de-russificazione della nostra cultura, come raccontano gli episodi di “cancellazioni”.
- Alcuni si chiedono se sia la pandemia ad averci privati della capacità di pensiero complesso, inducendoci a schierarci su posizioni prive di sfumature, in un clima intellettuale avverso al dubbio, all’interlocuzione e alla contestazione.
- In realtà si può dare una lettura diversa di questo fenomeno, richiamando funzionamenti più profondi dell’umano: di fronte a ogni pericolo che svela la nostra vulnerabilità ci troviamo a riattivare meccanismi “primitivi” di attribuzione della colpa.
Separare, isolare ed espellere la Russia che è tra noi e in noi. Sullo sfondo della spaventosa aggressione contro l’Ucraina sferrata da Vladimir Putin, sembra che quest’ansia si sia impossessata delle istituzioni culturali e dei centri del sapere, in Italia come in molti paesi occidentali. Così, si moltiplicano le notizie di “cancellazioni” – dall’ormai arcinota vicenda delle lezioni di Paolo Nori su Dostoevskij all’Università di Milano-Bicocca, passando per il ritiro di inviti ad artisti, fino all’interruzione di ogni cooperazione inter-universitaria con cittadini russi.
La perdita della capacità di distinguere e valutare, cioè dell’esercizio del giudizio, è stata analizzata nelle pagine di questo giornale sia da Nadia Urbinati, che ha stigmatizzato la «logica binaria» alla base di decisioni estreme e poco ponderate, sia da Mattia Ferraresi, che ha parlato di un «impeto sanzionatorio», definendo la cacciata indiscriminata di tutti i testimoni russi (non importa se dissenzienti o complici del regime) «il più putiniano degli esiti».
Che questo modo di (s)ragionare non sia nuovo è tuttavia evidente. Soprattutto, è facile vedere un’analogia con la polarizzazione del discorso pubblico e la moltiplicazione di misure punitive, spesso inutilmente estreme, che abbiamo vissuto due anni fa, allo scoppio della pandemia di Covid-19, e in realtà a più riprese nel corso degli ultimi ventiquattro mesi.
Il parallelismo tra i due eventi emerge soprattutto se si rammenta che anche di fronte al virus è stato dispiegato l’intero armamentario retorico bellico, fatto di «guerra», «nemico», «trincea», «prime linee», ecc.
Amico-nemico
Alcuni si chiedono così se sia la pandemia ad averci privati della capacità di pensiero complesso, inducendoci a schierarci su posizioni prive di sfumature, in un clima intellettuale avverso al dubbio, all’interlocuzione e alla contestazione.
Se insomma lo scoppio di una guerra vera, dopo una lunga semina di pensiero binario in una logica amico-nemico, ci abbia trovati mentalmente già predisposti all’opposizione tra un “noi” e un “loro”. Sarebbe una delle tante versioni della narrazione secondo cui la pandemia ci ha cambiati in peggio.
In realtà si può dare una lettura diversa di questo fenomeno, richiamando funzionamenti più profondi dell’umano. Sembra infatti che di fronte a ogni pericolo che svela la nostra vulnerabilità ci troviamo a riattivare meccanismi “primitivi” di attribuzione della colpa.
Si può rileggere in questa luce il saggio di Mary Douglas, Purezza e pericolo, del 1970. Nei sistemi simbolici di tutte le culture, sostiene l’antropologa britannica, le idee di separazione, purificazione, demarcazione e punizione delle trasgressioni svolgono come funzione principale quella di sistematizzare l’esperienza disordinata e difendere l’ordine sociale.
Il rischio di «contaminazione» è particolarmente avvertito quando il pericolo preme sui confini, quando le linee interne del sistema sono trasgredite, o ancora nei casi di contraddizione morale, «quando certi postulati fondamentali vengono negati da altri postulati fondamentali, in modo tale che in certi punti il sistema sembra in conflitto con se stesso».
Le regole relative alla purezza, e la punizione della loro trasgressione, servono così a rafforzare la solidarietà quando una comunità viene attaccata dall’esterno o a riaffermare pubblicamente una struttura quando la coesione è minacciata dall’interno, o ancora a convalidare principi morali incerti. «La minaccia di una contaminazione per l’intera comunità costituisce un’arma per la coercizione reciproca», scrive Douglas.
Residui di questi sistemi simbolici riemergono di fronte a pericoli come la pandemia o la guerra, che sopravanzano la capacità di dominio della nostra ragione scientifica e tecnologica. Un’ansiosa ricerca di purezza – biologica, nel caso del pericolo virale, o morale, nella contrapposizione dei fronti in conflitto – porta allora all’avversione verso tutte le presunte fonti di contaminazione. E se la paura del virus si tramuta in isolamento, allontanamento o punizione dei “devianti”, il folle attacco dell’esercito russo in Ucraina spinge a un’ossessiva de-russificazione della nostra cultura.
Al fondo, si tratta di mitigare il nostro senso d'impotenza. Ma l’esito non può che essere dannoso se è vero che, come scrive ancora Mary Douglas, «la purezza per cui tanto lottiamo e ci sacrifichiamo» si rivela «dura e morta come pietra, una volta che l’abbiamo raggiunta». Perché la purezza impedisce il pensiero complesso, è una camicia di forza per le idee, e in fondo una nemica della verità.
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