- La prossima approvazione da parte del Parlamento europeo di una direttiva sul salario minimo è una buona notizia. Si discute da anni di regole comuni, che faticano a concretizzarsi
- Il salario minimo non ha effetti negativi su occupazione. Anzi, l’evidenza sembra fornire supporto all’idea che salari più elevati spingono la produttività del lavoro
- L’Ue ha competenze limitate in termini di mercati del lavoro e protezione sociale. Ma con la proposta di direttiva potrebbe dotarsi di un insieme di metriche per monitorare i progressi dei paesi membri in tema di eque remunerazioni e standard di vita decenti
La settimana prossima il parlamento europeo dovrebbe approvare una proposta di direttiva elaborata dalla Commissione sul salario minimo europeo.
La direttiva contiene le linee guida per garantire un livello di vita decente a tutti i lavoratori salariati.
Questa è una buona notizia: quello del salario minimo europeo è un principio discusso da anni che tuttavia fatica a concretizzarsi.
No, il salario minimo non uccide l’economia
La questione della fissazione di un salario minimo è uno degli argomenti più dibattuti in economia. L’argomento classico secondo il quale il salario minimo introdurrebbe una “rigidità” nei mercati del lavoro, creando disoccupazione proprio per i lavoratori che vorrebbe tutelare, ha scarso supporto empirico.
Vale la pena di ricordare che uno degli studi più celebri di David Card, per il quale è stato insignito del premio Nobel 2021, ha dimostrato che l’occupazione generalmente non risente dell’introduzione del salario minimo.
Altri studi indicano che salari più elevati tendono a far aumentare la produttività (se ti pago meglio sei più produttivo, e non se sei più produttivo hai un salario più elevato, come vorrebbe la vulgata). Infine, un salario minimo adeguato avrebbe importanti ricadute sull’inclusione sociale e sull’uguaglianza.
Le donne sono sovra rappresentate nei settori in cui le retribuzioni sono più basse (come la cura agli anziani e alla persona in genere) e in cui un salario minimo adeguato avrebbe un impatto significativo.
È quindi difficile immaginare miglioramenti significativi nell’uguaglianza di genere nelle retribuzioni se non si opera per aumentare i salari nella parte bassa della distribuzione.
Al contrario, dopo la crisi finanziaria del 2008, la disuguaglianza salariale è aumentate proprio perché i salari più bassi (vittime delle politiche di consolidamento di bilancio) sono rimasti al palo.
L’Europa ha poteri limitati (ma non nulli)
Ventuno dei ventisette paesi dell’UE hanno un salario minimo legale; nei rimanenti sei (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia) la contrattazione collettiva ha un ruolo importante nella determinazione dei salari.
Anche dove esiste, il salario minimo è generalmente insufficiente a garantire quella remunerazione equa e quegli standard di vita decenti che costituiscono uno degli assi del pilastro europeo dei diritti sociali.
Nel 2018, in soli quattro Stati membri (Francia, Portogallo, Slovenia e Romania) il salario minimo era superiore al valore associato con la soglia di povertà, il 60 per cento della retribuzione lorda mediana. Per questo, la proposta di direttiva è un importante passo avanti.
Tuttavia, le competenze in tema di materie sociali (e in particolare di mercato del lavoro) restano in mano agli Stati membri. L’Europa può al più giocare un ruolo di stimolo e di monitoraggio.
Per questo la direttiva in via d’approvazione non propone l’introduzione di un salario minimo unico europeo (che peraltro non avrebbe senso economico) né, tanto meno, un livello minimo per paese, commisurato al salario mediano.
La proposta ambisce invece a definire criteri comuni per salari equi e standard di vita decenti che in ogni paese dovrebbero essere ottenuti compatibilmente con le consuetudini e le istituzioni prevalenti. Di fatto, si doterebbe l’Ue di uno strumento di pressione collettiva, in una sorta di gioco reputazionale.
La Commissione ha proposto un monitoraggio continuo dei progressi attraverso relazioni annuali al parlamento europeo e al Consiglio dell'Ue, nel quadro del semestre europeo (nato proprio per coordinare le politiche dei paesi membri).
Quale remunerazione equa?
La definizione di remunerazione equa e di un livello di vita decente è difficile da quantificare. Per questo, la proposta di direttiva propone di utilizzare diverse metriche.
In primo luogo, la siglia del 60 per cento del reddito mediano, considerata come buona approssimazione del salario che consente a un lavoratore a tempo pieno di evitare una vita in povertà.
Tuttavia, riferirsi al reddito mediano può essere problematico nei casi in cui la distribuzione è molto polarizzata, con pochi salari molto elevati che tirano verso l’alto il reddito medio, e molti lavoratori con salari bassi, che tirano verso il basso il reddito mediano (che indica il livello di reddito del lavoratore che è al centro della distribuzione).
Il Portogallo si trova in questa situazione: il salario minimo è considerato insufficiente a garantire standard di vita adeguati pur essendo superiore al 60 per cento del reddito mediano, in ragione dell’elevato numero di lavoratori con salari bassi e bassissimi.
Per questo, seguendo il suggerimento di molti economisti del lavoro, la Commissione e il Parlamento raccomandano che i salari minimi siano portati almeno al 50 per cento del reddito medio (oltre al 60 per cento del reddito mediano). Se tale doppio criterio fosse applicato, tutti i ventuno paesi tranne Slovenia e Francia dovrebbero aumentare il salario minimo legale.
L’altra variabile che la direttiva si propone di monitorare è la copertura della contrattazione collettiva, che rappresenta un ostacolo alla riduzione dei salari (proprio per questo il suo perimetro è stato ridotto in molti paesi negli anni dell’austerità e della svalutazione interna).
Il progetto di direttiva nota che nella maggior parte degli Stati membri con livelli elevati di salari minimi rispetto al salario mediano, la copertura della contrattazione collettiva supera il 70 per cento, e auspica che progressivamente essa sia portata all’80 per cento (soprattutto nei paesi, come il nostro, sprovvisti di salario minimo).
Insomma, se è vero che le competenze europee in tema di salario minimo sono limitate, la direttiva che il Parlamento voterà nei prossimi giorni costituisce un indubbio passo avanti nella definizione di standard di remunerazione equi e nel mettere gli Stati di fronte alle proprie responsabilità in termini di sostegno ai redditi più bassi. La palla poi passerà al Consiglio dell’Ue, dove sono rappresentati i capi di Stato e di governo, per l’approvazione definitiva del testo. Per evitare cattive sorprese occorrerà che la società civile vigili e faccia sentire la propria voce.
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