Quando un alleato attraversa un momento di debolezza allora quello è il momento in cui forzare per spuntare concessioni. Giorgia Meloni attraversa senza dubbio un momento di debolezza, per ora evidente più nelle dinamiche di palazzo che nei sondaggi, dovuto alle dimissioni del ministro Sangiuliano e agli strascichi di un caso che continua a mostrare le tante inadeguatezze dei vertici del partito della premier.

A questa debolezza interna si aggiunge la precarietà dello scenario europeo dovuto all’ambiguo atteggiamento di Fratelli d’Italia, fuori dalla maggioranza ma in dialogo con il Ppe. Le deleghe e il ruolo di Raffaele Fitto sono ancora in forse e il governo italiano si ritrova di fronte resistenze che avrebbe potuto facilmente evitare dichiarando voto favorevole per la rielezione di Ursula von der Leyen.

Che la premier sia in una posizione scomoda lo si evince anche dalla rincorsa a Mario Draghi, tornato alla ribalta della scena di Bruxelles dopo la presentazione di un report molto efficace nella diagnosi dei mali europei per quanto di difficile attuazione. Meloni, che forse in altri tempi avrebbe ignorato il suo predecessore, ora è quasi costretta ad invitarlo ad un colloquio privato per capire come muoversi meglio in Europa.

La premier cerca Draghi sia per segnalare la vicinanza del governo alle soluzioni dallo stesso auspicate sia perché forse si spera nei buoni uffici di quest’ultimo nelle stanze europee proprio per dare l’ultima spinta al commissario in pectore Fitto. Ma qui emerge la contraddizione.

Perché il partito di Meloni ha votato contro von der Leyen e la sua piattaforma europeista in nome dell’identità conservatrice per poi finire a rincorrere Draghi, il cui rapporto è stato commissionato proprio dalla presidente della Commissione e le cui conclusioni vanno verso una maggiore integrazione dell’Unione? Di questa debolezza umana e di ragion politica si sono accorti anche gli alleati, come si diceva in principio, in particolare una Forza Italia che pare essere sempre più vegliata dai figli maggiori di Silvio Berlusconi.

È partita così una manovra che somiglia a un accerchiamento. I Berlusconi, ispirati dalla regia di Gianni Letta, presente all’incontro con Draghi, segnalano a Meloni da che parte vogliono stare e con quali idee. Meloni è così stretta su più fronti: dai vincoli esterni europei e dall’ostilità di partiti e governanti europeisti, dall’élite economico-finanziaria per cui Draghi è un riferimento imprescindibile, da Forza Italia e la sua nuova politica centrista suggerita dalla famiglia del fondatore.

L’obiettivo è quello di mettere le catene a ogni sovranismo residuo del governo, incanalare l’azione politica dentro un binario moderato, sanzionare ogni deviazione di Fratelli d’Italia e Lega da questo schema. Siamo ad uno snodo chiave della legislatura pur senza eventi particolarmente traumatici.

Meloni può scegliere di andare avanti come in questi due anni, contando soltanto sui suoi fedelissimi, giocando in equilibrio tra coerenza identitaria e patti con l’Europa, limitandosi a reagire agli eventi e alle sollecitazioni come quella del rapporto Draghi ma senza mai proporre nulla di proprio a Bruxelles. Oppure può rinnovare il governo, sviluppare un programma di riforme economiche più ardito, proporre un piano italiano di riforme e iniziative in Europa.

E in definitiva provare a evitare che un accerchiamento oggi ancora non troppo ostile si trasformi domani in una pericolosa corrida.

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