Metto nel conto l’accusa di moralismo o quantomeno di nostalgia per figure che hanno incarnato con esemplare distacco il servizio a politica e istituzioni.
Vi sono casi eclatanti ed esemplari alla rovescia. Per stare ai due più recenti, penso a Daniela Santanchè e ad Andrea Delmastro Delle Vedove. A suggerire loro un passo indietro dovrebbe essere non dico un minimo di sensibilità per la disciplina e l’onore prescritti dalla Costituzione a chi riveste cariche pubbliche (cioè per il superiore interesse delle istituzioni), ma anche più modestamente per riguardo al governo in cui siedono e al partito in cui militano.

Manifestamente in imbarazzo entrambi. In questi casi siamo chiaramente oltre il limite della decenza. Dimettersi, si asseriva un tempo, anche per meglio difendersi in giudizio e sgravare partito e istituzioni dalla sorte incerta delle proprie personali traversie. Oggi si pratica il contrario: farsi scudo del proprio ruolo, non farsi scrupolo di trascinare governo e partito nella propria autodifesa in sede giudiziaria.

Il terzo mandato

Pur senza assurgere a queste vette, si pensi alla sfrontata pervicacia con la quale politici di prima fila – i Vincenzo De Luca e i Luca Zaia – ingaggiano epiche battaglie per strappare ulteriori mandati in aperto contrasto con i limiti fissati dalla legge. Come ha argomentato da par suo Gianfranco Pasquino su queste pagine. Ricorrendo a sofismi tecnico-giuridici, a ricatti politici al proprio partito, a motivazioni speciose e demagogiche ancorché ripetute ossessivamente: lo vorrebbero i cittadini elettori. Con la presunzione della propria insostituibilità.

Come se, nelle democrazie costituzionali, non vi fossero beni e principi che spetta alla legge presidiare e garantire in via generale. Tipo scongiurare la patologica concentrazione del potere o, in positivo, propiziare un sano ricambio ai vertici (di governo, non di mera rappresentanza collegiale) laddove essi sono investiti da un mandato personale e diretto e dunque depositari di un esorbitante potere. Che è poi la motivazione formulata da più sentenze della Corte costituzionale.

Fuor di ipocrisia, comportamenti che attestano più semplicemente un attaccamento al potere che fa premio su ogni altra ragione attinente al servizio pro tempore a politica e istituzioni. Impressionano la spavalderia e la pervicacia.
Comportamenti che fanno scuola. Sindaci di città importanti, di diversa e opposta sponda politica, si stanno associando in quella battaglia non esattamente disinteressata. Un tempo si sarebbe provato imbarazzo nel battersi senza ritegno per sé medesimi.

Del resto, non è di oggi la propensione assurta a regola secondo la quale amministratori a vario livello in scadenza – a sinistra come a destra –  pretendono di essere “sistemati” al modo di premio di fine carriera. Nei molteplici settori del “parastato” ma anche al parlamento europeo. In vari casi, temporaneamente. In attesa di altri incarichi in Italia, dopo avere maturato una certa frustrazione per la modesta visibilità mediatica e politica assicurata dal lavoro parlamentare a Strasburgo e a Bruxelles. Che, troppo spesso, in passato, è stato inteso come una “sine cura” o un dorato pensionamento politico.

L'eccezione Bersani

Mi sia permesso accennare a una eccezione positiva. Quella di Pier Luigi Bersani, con la sua decisione di non candidarsi più al parlamento, per dedicarsi al volontariato e alla militanza politica e di partito. Una decisione che, della sua persona, ha semmai accresciuto l’apprezzamento, nonché l’influenza politica e la visibilità mediatica. Una eccezione che fa onore a lui ma che, contestualmente, ne rimarca la singolarità.

Ci ha provato, Bersani, con discrezione e spirito amico, rivolgendosi al vecchio compagno De Luca, a suggerirgli di ispirarsi al suo esempio, di fare tesoro della esperienza accumulata quale politico e amministratore per iniziare a tale servizio una nuova generazione. De Luca lo ha fatto e lo fa, ma limitatosi a famiglia e famigli. Bersani si è messo a servizio del suo partito, De Luca ha dato alle stampe un libro intitolato Nonostante il Pd e non perde occasione per sbeffeggiarlo.

Qualche volta abbiamo ironizzato su Bersani per la sua enfasi sulla fedeltà alla «ditta» (partito) di scuola comunista, ma dobbiamo riconoscere che, al netto di qualche innegabile limite di una tradizione politica che ha fatto assurgere il partito a “chiesa”, c’è ancora qualcuno che, di quel patrimonio, custodisce e testimonia lo spirito di generosa, personale dedizione, nonché la visione sempre più rara dei partiti non ridotti a taxi o uffici di collocamento.

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