Come differenziare l’aiuto dall’esecuzione, la morte volontaria dall’omicidio? Non si tratta di distinzioni facili. Bisogna riconoscere agli individui la libertà di disporre della propria vita ma proteggere anche i più deboli, evitare lo sfruttamento economico della disperazione. Lo strumento migliore che abbiamo per conciliare valori e rispettare tutti è quello legislativo. Il parlamento italiano deve assolutamente colmare questo vuoto
Alcuni giorni fa nei boschi del cantone svizzero di Sciaffusa una donna si è data la morte utilizzando un macchinario che permette di morire per ipossia, respirando azoto. Si tratta di un sarcofago, da cui il nome del dispositivo (Sarco), in cui la persona si rinchiude, facendo uscire l’azoto tramite un pulsante.
Le persone che hanno collaborato sono state arrestate dalle autorità svizzere, per aver aiutato a commettere un suicidio al di fuori della legislazione vigente in Svizzera, che garantisce il suicidio assistito solo sotto controllo medico e dopo aver verificato l’autonomia e l’effettiva volontà di chi sceglie di darsi la morte.
Di fronte a un caso del genere, per chi ritiene che la vita sia un dono di Dio e gli esseri umani non possano privarsene autonomamente le cose sono semplici. Il suicidio è un errore, e chiunque lo favorisca, o peggio lo istighi, è complice dell’errore.
Per chi invece crede nell’autonomia degli esseri umani, suicidarsi, per quanto triste, è una scelta ammissibile o anche ragionevole. Molti ammirano Seneca, che decise di mettere fine alla sua vita per non venire giustiziato da Nerone.
Il problema, però, è come considerare chi in qualsiasi modo aiuta l’aspirante suicida. Come distinguere aiuto da istigazione, come differenziare l’aiuto al suicidio dall’esecuzione di esso da parte di terzi, caso nel quale il suicidio diventa un omicidio? E naturalmente tutti sono d’accordo sul fatto che bisogna impedire che il suicidio sia frutto di circonvenzione, istigazione, pressione, e che bisogna distinguere fra omicidio e suicidio. Ma non si tratta di distinzioni facili.
Lo stesso Seneca è stato istigato, in un certo senso, dalla paura di una ingiusta condanna a morte. E che rilevanza morale ha il fatto che, per esempio, tutto il necessario per commettere un suicidio venga fornito da terzi e poi sia il suicida a compiere l’ultimo frammento d’azione necessaria, premere un bottone, ingerire un liquido, e così via? La libertà è decidere per evitare pressioni estreme? O controllare l’ultimo piccolo pezzo di una catena causale?
È ovvio che qui si debbono bilanciare due valori, il valore dell’autonomia e il valore della vita. Bisogna riconoscere agli individui la libertà di disporre della propria vita ma proteggere anche deboli e inermi, evitare lo sfruttamento economico della disperazione e del disagio, e così via. Ed è ovvio che i confini di questi valori sono sfumati.
Quale scelta è sempre e veramente autonoma? Quante sono le opzioni che dobbiamo lasciare disponibili alle persone perché la loro decisione sia veramente libera? E che dire dei vari modelli culturali che influenzano la nostra visione di noi stessi? E la vita ha sempre valore? Per chi non crede nella santità della vita, che valore può avere una vita di sofferenze, o priva di beni essenziali?
Un monito
Lo strumento migliore che abbiamo per conciliare valori e rispettare tutti è quello legislativo. Ma le leggi non sono baluardi di assoluta proibizione. Non lo sono per ragioni politiche; ci sono opinioni diverse e cittadini adulti: imporre un quadro religioso o etico controverso significa mancare loro di rispetto. Ma non lo sono di fatto.
Le leggi più draconiane sono le meno rispettate. Leggi assolute in un paese creano turismi del suicidio o della procreazione in altri. Proibizioni assolute creano situazioni e mercati clandestini. Quanti suicidi assistiti avvengono, nel chiuso e nell’ombra delle case e degli ospedali in Italia? E a che prezzo?
Il caso di Sciaffusa non è un monito contro una legge sul suicidio assistito, semmai un argomento in suo favore. Il parlamento deve dare seguito ai suggerimenti della Corte costituzionale, che nel 2019, intervenendo dopo il caso di Dj Fabo, ha escluso che sia istigazione al suicidio aiutare pazienti affetti da patologie irreversibili, fonti di sofferenze fisiche o psicologiche, convinti che tali sofferenze siano intollerabili e che decidono liberamente e consapevolmente di rinunciare alle cure o ad altre forme di sostegno vitale.
Ci sono casi in cui aiutare chi vuole porre fine alla sua vita non è complicità in un’azione contro il valore della vita, ma promozione dell’autonomia. La nostra autonomia si regge sulle azioni altrui, in un bilanciamento complicato di nostre decisioni e collaborazione con gli altri. Affidare a una legge e alle istituzioni mediche queste difficili decisioni è il meglio che possiamo fare. Il parlamento italiano deve assolutamente colmare questo vuoto.
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