Nel febbraio del 1947 la commissione dei 75 dell’Assemblea costituente depositò il progetto della Carta costituzionale per la discussione generale. Quel testo è l’espressione dell’anima profonda dei costituenti, una carta capace di produrre un equilibrio per la costruzione dello stato repubblicano. È l’espressione dell’Italia migliore, che portava dentro sé non solo il sapere giuridico ma la carica dell’esperienza delle sofferenze vissute nel terribile passaggio dallo stato monarchico alla Repubblica. L’art.97 di quel progetto va riletto. Stabilisce che la magistratura è «un ordine autonomo e indipendente». E che nell’organo di autogoverno, il Csm, il rapporto tra la componente espressione del parlamento e quella della magistratura è paritetico. La presidenza è data al presidente della Repubblica; dunque rispetto alla magistratura, la maggioranza è del potere politico. L’azione disciplinare è assegnata al ministro di Grazia e Giustizia, cioè al potere politico.

Quest’impostazione non piacque alla magistratura di allora, che era conservatrice e temeva di dover rispondere delle sue prestazioni del periodo pre-repubblicano. E che infatti cercò di rovesciarla: il potere di gestione (assunzioni, promozioni, trasferimenti) doveva essere gestito dal potere corporativo. E trovò in parlamento un giovane magistrato della Dc che presentò un apposito emendamento. Era Oscar Luigi Scalfaro. La votazione fu tormentata ma passò. Fu introdotta la maggioranza di due terzi alla magistratura e un terzo alla rappresentanza parlamentare. E fu tolta l’azione disciplinare al ministro.

L’autogestione

Così il Csm diventa organo di autogestione corporativa. Il passaggio dall’art.97, che poi diventa gli articoli 104 e 105, segna l’inizio del processo con cui la magistratura diventa sempre più potere politico fino all’illusione che il potere della magistratura possa convivere con il potere politico. L’allargamento del potere giudiziario trova la sintesi, 45 anni dopo, nel grido del presentatore di quell’emendamento “Io non ci sto”. A cosa non sta? Al passaggio dell’ordine della magistratura a potere politico. Ma è tardi. La progressiva espansione del potere giudiziario ha portato all’ingovernabilità di questi ultimi tempi.

La soluzione è il ritorno alla posizione che i padri costituenti assegnarono alle istituzioni nel progetto costituente. Serve una distensione. L’esempio è la Corte costituzionale. La sua composizione, art.135, è affidata un terzo ai giudici, un terzo al parlamento, un terzo al presidente della Repubblica, che cesserebbe di essere presidente ma dovrebbe nominare i suoi componenti fra i cittadini che per sapere e esperienza hanno onorato la giustizia nell’Italia e nel mondo.

Serve dunque una leggera modifica della carta sul modello della Corte costituzionale. È possibile e anche all’ordine del giorno: perché c’è una ministra di Giustizia sensibile agli equilibri istituzionali e che ha visto nella corte la coabitazione di tre espressioni diverse; c’è un dibattito aperto, grazie ai referendum, sulla trasformazione della magistratura da ordine a potere; infine molte autorevoli voci oggi ritengono che una vera riforma della magistratura sia impossibile senza una modifica costituzionale. Questo porterebbe una distensione del caos in atto. I magistrati devono tornare al loro ruolo, che è quello di applicare la legge senza reinterpretarla; la politica deve esercitare il controllo democratico, con equilibrio e armonia.

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