- Opposte tifoserie che ripetono ossessivamente slogan ritriti da decenni, esattamente come allo stadio. Così sono i due “cori” dell’opinione pubblica italiana che accompagnano la “guerra di Gerusalemme”.
- Da una parte il problema è la totale assenza di una leadership palestinese lontanamente presentabile e interessata a un processo di pace. Dall’altra parte il problema è Netanyahu, leader sull’orlo della galera che per sopravvivere politicamente è disposto a tutto.
- Ma c’è in Israele un problema ancora più grande: si chiama “Stato ebraico”. Se si avverasse il "sogno" degli ultra-nazionalisti israeliani, trasformato in promessa elettorale da Netanyahu, di annettere a Israele dei territori occupati, gli ebrei israeliani diventerebbero poco più di metà della popolazione di un eventuale “grande Israele” e dunque l'idea stessa di "Stato ebraico" perderebbe molto del suo senso.
Opposte tifoserie che ripetono ossessivamente slogan ritriti da decenni, esattamente come allo stadio quando si gioca Milan-Inter o Roma-Lazio. Così sono i due “cori” dell’opinione pubblica italiana che accompagnano la “guerra di Gerusalemme”. C’è il coro dei partiti, quasi tutti, che vede solo i diritti di Israele, come se alla radice di questo conflitto senza fine che dura da settant’anni non ci fosse la drammatica impossibilità - finora - di conciliare due diritti tutti e due inalienabili e ognuno dei due sistematicamente negato da uno dei contendenti: il diritto di Israele a esistere e a esistere in sicurezza, il diritto dei palestinesi ad avere una patria nella quale vivere da cittadini con piena legittimità e dignità.
E poi c’è il coro “pacifista” che di Israele vede solo le colpe, come se fosse semplice per uno Stato vivere circondato da nemici che vogliono cancellarlo dalla carta geografica. Ora, Israele è “Golia”, per forza militare ed economica, e questo in parte giustifica l’abitudine dei gruppi pacifisti di dare più attenzione alle ragioni di “Davide”: non a costo però di negare l’evidenza. Per dire, negli appelli che circolano in solidarietà dei palestinesi – Tavola della pace, Associazione delle Ong italiane – Israele è ripetutamente citato come “il carnefice” mentre Hamas non è citato mai, al massimo si nominano pudicamente «i gruppi armati di Gaza».
Ma quelli di Gaza non sono “gruppi armati”, sono i capi della città e sono il partito che se si votasse oggi stravincerebbe sia a Gaza che in Cisgiordania. O ancora, si filosofeggia che la soluzione della crisi è semplice, basta «riconoscere ai palestinesi la stessa dignità, la stessa libertà e gli stessi diritti che riconosciamo agli israeliani»: peccato che uno dei nodi irrisolti sia proprio qui, nel rifiuto di Hamas e dei governi che lo appoggiano di riconoscere a Israele questa dignità e questi diritti.
Dunque, da una parte il problema è la totale assenza di una leadership palestinese lontanamente presentabile e lontanamente interessata a un processo di pace. Hamas è un movimento estremista che non ammette l’esistenza dello Stato di Israele e non esita a utilizzare metodi di guerra oggettivamente terroristi, l’Anp è politicamente, e nel consenso, debolissima.
Dall’altra parte il problema, certo, è Netanyahu, leader sull’orlo della galera per accuse di corruzione e che per sopravvivere politicamente è disposto a tutto, anche ad autorizzare veri crimini di guerra come quelli commessi da Israele in questi giorni. Ma c’è in Israele un problema ancora più grande di Netanyahu: si chiama “Stato ebraico”.
Le cronache di questa ennesima guerra israelo-palestinese dicono di una crisi che agli ingredienti soliti di ogni “intifada”, oppure di ogni ondata di missili di Hamas con annessa reazione sproporzionata di Israele, ne aggiunge uno nuovo: nelle città israeliane la convivenza sia pure fragile tra ebrei e palestinesi, gli uni e gli altri cittadini israeliani, che fino a oggi aveva resistito, rischia di esplodere.
Qual è, rispetto a questo tema, il senso attuale e l'orizzonte futuro del concetto di “Stato ebraico”? La popolazione di Israele è oggi di oltre 9 milioni di persone, di cui circa tre quarti ebrei e più di un quinto arabi; il dato comprende anche gli oltre 300mila arabi residenti a Gerusalemme est e i 400mila coloni israeliani che vivono nei territori occupati, naturalmente non comprende gli oltre 4 milioni di palestinesi che vivono nei territori occupati e non sono cittadini israeliani. Tra i Paesi “ricchi” Israele è uno di quelli dove si fanno più figli e la popolazione cresce di più. La fecondità è alta sia tra le donne ebree che fra le arabe, il rapporto di forze tra ebrei e arabi israeliani è sostanzialmente stabile ma sia pure molto lentamente la percentuale degli arabi israeliani tende ad aumentare. Un dato simbolico fotografa bene il peso non indifferente della presenza araba tra i cittadini di Israele: il nome che ricorre di più tra i nuovi nati nel Paese è Mohammed.
Questi numeri danno forma a un paradosso. Se domani si avverasse il "sogno" degli ultra-nazionalisti israeliani, trasformato in promessa elettorale da Netanyahu, di annettere a Israele dei territori occupati, gli ebrei israeliani diventerebbero poco più di metà della popolazione di un eventuale “grande Israele” e dunque l'idea stessa di "Stato ebraico" perderebbe molto del suo senso, o per lo meno costringerebbe chi la sostiene a scegliere tra due strade: o accettare che questo "grande Israele" per rimanere uno Stato democratico non sia più "Stato ebraico", oppure pretendere che resti "Stato ebraico", ma ammettendo che cessi di essere democratico e invece istituzionalizzi una differenza di status tra cittadini ebrei e non ebrei.
Un problema analogo seppure meno vistoso riguarda anche il "piccolo Israele", quello compreso dentro i confini di prima del 1967: qui gli arabi costituiscono un robusta minoranza e sono, per più di un aspetto, cittadini "di serie B", senza una vera parità di diritti con i cittadini ebrei. Per esempio non possono svolgere il servizio militare, e fino a oggi i partiti che li rappresentano sono stati considerati da tutti gli altri, destra e sinistra, come partiti “paria”, nemmeno immaginabili come alleati in governi di coalizione.
Giustamente Israele rivendica di essere l'unica democrazia del Medio Oriente, ma questa sua natura trova un'oggettiva e ingombrante limitazione nella declinazione "nazionalista" del concetto di “Stato ebraico” cara alla destra di Natanyahu. Israele può e anzi deve rivendicare le proprie radici ebraiche, come l'Europa non può né deve smettere di sentirsi l'erede della tradizione giudaico-cristiana: ma se vuole rimanere democratico dovrà ridefinirsi, come nell’idea prospettata nel Novecento da una parte stessa del movimento sionista, quale "patria" di tutti coloro - ebrei, arabi, né ebrei né arabi - che nascono o diventano cittadini israeliani.
Sempre di più nel futuro, Stato "ebraico" e Stato "democratico" saranno per Israele concetti difficili da far convivere. La fine dell'occupazione della Cisgiordania e la nascita di uno Stato palestinese libero e sovrano - vie peraltro rese impervie sia dalla miopia irresponsabile dell'attuale leadership israeliana sia dalla cronica inaffidabilità delle classi dirigenti palestinesi, e terribilmente complicate anche dalla trama sempre più a macchia di leopardo tra città arabe e colonie ebraiche che solca la Cisgiordania - darebbero certo un po’ di tempo in più per costruire le basi giuridiche e anche emotive di una “communis patria” di chi nasce, cresce, vive, lavora in Israele. Ma resta questa, persino al di là del conflitto con i palestinesi “oltreconfine”, la sfida esistenziale che attende Israele nei prossimi decenni.
© Riproduzione riservata