Jeffrey Burrill, già segretario generale della conferenza episcopale degli Stati Uniti, si è dimesso dal suo incarico pochi giorni fa a seguito di un’inchiesta. Il sito The Pillar sostiene di aver avuto accesso ai dati di geolocalizzazione del suo telefonino che, analizzati e de-anonimizzati, consentirebbero di ricostruire i suoi spostamenti. Dall’analisi risulta che «il religioso avrebbe frequentato locali per omosessuali in diverse città tra il 2018 e il 2020, anche nel corso di viaggi per conto della conferenza episcopale». L’affaire Burrill è emerso negli stessi giorni in cui venivano resi pubblici i risultati dell’inchiesta “Pegasus” che ha visto lavorare insieme 17 testate giornalistiche internazionali e che ha svelato il ruolo globale dello spyware nella sorveglianza di uomini politici, oppositori, giornalisti e dirigenti d’azienda.

Il grande fratello

La transizione al digitale di numerose attività contribuisce ad aumentare la superficie d’attacco disponibile, col conseguente moltiplicarsi dei tentativi di monitoraggio e sorveglianza digitale. Tra i tanti settori oggetto d’analisi particolare attenzione è riservata ai gruppi religiosi. Kathryn Montalbano, nel suo volume pubblicato nel 2018 Government Surveillance of Religious Expression (Routledge), ha analizzato alcuni capitoli importanti della storia della sorveglianza del governo degli Stati Uniti sulle minoranze religiose.

Queste erano percepite come pericolose e inaffidabili quanto a lealtà repubblicana e, soprattutto, come una minaccia rispetto all’egemonia del protestantesimo bianco. Mormoni, quaccheri, musulmani, nessuno si è salvato dalla rete del grande fratello governativo. Erano ben lontani i tempi dell’Nsa e di Snowden, ma il governo degli Stati Uniti già si premurava di affrontare il “problema” della poligamia dei mormoni mediante sofisticate azioni di sorveglianza.

Nel 2018 la rivista Surveillance & Society ha addirittura deciso di dedicare un numero monografico al tema della religione. Apprendiamo così che l’ultimo governo feudale del Giappone, lo shogunato Tokugawa, già nel 1600, aveva costruito un complesso sistema di sorveglianza delle abitudini della popolazione (creazione di una rete di informatori, sistemi di registrazione dei luoghi di culto, test religiosi) al fine di prevenire la diffusione del cristianesimo allora illegale nel paese.

Qualche anno fa, proprio in Giappone, è emerso come la polizia di Tokyo fosse arrivata a sorvegliare e profilare circa 72.000 fedeli musulmani raccogliendo e archiviando informazioni relative ai loro conti correnti bancari e ai loro spostamenti. Per favorire questa raccolta di informazioni la polizia giapponese aveva installato delle telecamere nelle moschee e aveva infiltrato gruppi e organizzazioni riferibili alla comunità musulmana. Come ha evidenziato un rapporto sul caso presentato alle Nazioni unite dall’Attorney team for victims of illegal investigation against muslims: «Gli obiettivi della sorveglianza e della raccolta d’informazioni sono stati selezionati solo a causa del loro essere musulmani. Le forze di polizia hanno raccolto i loro dati personali in modo automatico e ampio senza tener conto di eventuali precedenti, della loro pericolosità sociale o dell’affiliazione a gruppi criminali».

Ma non è solo a oriente che la violazione dei diritti civili mediante la sorveglianza di massa introduce sfide importanti alla tenuta dei sistemi liberal-democratici. Certo, i paesi asiatici si rivelano essere un laboratorio fondamentale. Su questo quotidiano abbiamo a più riprese analizzato la situazione della minoranza musulmana uigura in Cina, oggetto delle “particolari” attenzioni del regime di Pechino mediante una sorveglianza stringente che utilizza a pieno regime le possibilità del digitale, anche mediante strumenti e tecnologie che vengono importate dai paesi occidentali.

Oriente e occidente

Esempi di sorveglianza sulle comunità religiose, in particolare sulla minoranza musulmana, sono rinvenibili negli Stati Uniti anche in tempi recenti. Matt Apuzzo e Adam Goldman, vincitori con alcuni loro colleghi dell’Associated press del premio Pulitzer per un’inchiesta sul tema, hanno sottolineato come il New York police department avesse organizzato «squadre di agenti sotto copertura, noti con il nome di “rakers nei quartieri abitati da minoranze nel contesto di un programma di mappatura e monitoraggio. Gli agenti hanno monitorato la vita quotidiana nelle librerie, nei bar, nei night-club. La polizia ha anche utilizzato degli informatori, noti come “mosque crawlers per monitorare i sermoni degli imam anche a scopo preventivo e senza che vi fosse alcuna prova o indizio di possibili reati».

L’incontro fra studi sulla sorveglianza e religione non è dunque casuale e non è da attribuirsi soltanto agli sviluppi relativi alla transizione digitale degli ultimi anni. L’acquisizione delle informazioni, la loro gestione oculata e la loro divulgazione nei tempi e nei modi opportuni ha posto spesso in concorrenza il potere temporale e il potere spirituale. Il G20 Interfaith forum è un’organizzazione che contribuisce al dibattito globale sul ruolo del fattore religioso nelle politiche pubbliche, in particolare nel contesto delle attività del G20.

Proprio per oggi pomeriggio ha organizzato un webinar sulle implicazioni etiche della rivoluzione digitale. In quella sede verranno anticipate le conclusioni di un rapporto che Domani ha avuto modo di consultare in anteprima. Gli autori del rapporto (Marco Ventura, Branka Marijan, Robert Geraci) evidenziano le problematiche etiche e giuridiche che il mondo digitale porta con sé. Tra queste è ovviamente dedicata una considerazione particolare all’impatto sulla tutela dei diritti civili e, nello specifico, alla tutela della privacy e dei dati personali. Nel documento si sottolinea come già nel 2019 fossero ben 75 i paesi che facevano uso di tecnologie basate sull’utilizzazione dell’intelligenza artificiale a fini di sorveglianza.

Secondo i redattori del documento «le tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale tendono a essere utilizzate in maniera sproporzionata contro minoranze religiose, razziali ed etniche che sono già marginalizzate. Il risultato è che questi gruppi sono soggetti a un più alto livello di controllo sociale e di attenzione da parte delle forze di polizia. Anche se solo in queste fasi iniziali del loro sviluppo le tecnologie per la sorveglianza pongono una seria sfida alla democrazia». Proprio per questo motivo viene evidenziata la necessità di una urgente riflessione globale sul tema. Del resto, il dibattito non è del tutto nuovo, ma è sicuramente più recente la presa di consapevolezza della portata delle tecnologie disponibili e del loro potenziale impatto.

La storia però ci ha insegnato che spesso sorveglianza e religione si sono incrociate con effetti importanti su tutto l’ordinamento giuridico. Come hanno scritto i giudici statunitensi chiamati a decidere sul caso della sorveglianza del New York police department sui fedeli di religione musulmana: «La situazione che ci troviamo ad affrontare non è nuova. Il nostro paese ha intrapreso scelte simili in altri tempi. Gli ebrei americani durante il periodo influenzato dalla paura del comunismo, gli afroamericani durante le rivolte per i diritti civili, gli americani di origini giapponesi durante le Seconda guerra mondiale sono tutti esempi che tornano alla mente. Ci viene da chiederci perché non riusciamo a vedere con anticipo quello che comprendiamo con il senno di poi, ovvero che la lealtà repubblicana è una questione di cuore e di mente e non di razza, credo o colore della pelle».

I casi Burrill e Pegasus ci indicano che oggi il livello dello scontro si è notevolmente innalzato. La possibilità di acquisire dati personali (anche se parzialmente anonimizzati) e l’aumento della superficie di esposizione di ognuno di noi dovrebbero indurci a riflettere sui migliori strumenti di tutela della dignità umana. L’Assemblea parlamentare del consiglio d’Europa nell’approvare un rapporto del Comitato per gli affari giuridici e i diritti umani nel 2015 aveva già sottolineato che «i file di Snowden rivelano come le agenzie di intelligence statunitensi monitorassero soprattutto celebri attivisti musulmani di cittadinanza statunitense, avvocati e politici mediante l’utilizzazione di norme la cui ratio principale era quella di sorvegliare l’attività di terroristi e spie straniere». Un tema, quello della sorveglianza, su cui il rapporto fra diritto e religione ha molto da dire.

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